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Trump non è spacciato e insegue la Clinton

Nel dibattito presidenziale più scadente da decenni prevalgono velenosi attacchi personali. Ma il colpo del ko non arriva

Trump non è spacciato e insegue la Clinton

È stato il dibattito più crudele, personale, acido e povero di contenuti politici della storia degli Stati Uniti. Gli americani si sono radunati a decine di milioni davanti ai televisori per vedere se Trump sarebbe caduto dopo la pubblica esposizione delle sue deplorevoli parole sul corpo delle donne, considerate e usate come preda di caccia. E poi per vedere come avrebbe reagito la Clinton nel vedere schierate in platea almeno quattro delle amanti del marito durante il periodo della sua presidenza. La linea difensiva e offensiva di Trump è stata relativamente semplice: io ho fatto malissimo a dire quel che ho detto, ma le mie erano soltanto parole. Il marito di questa signora, mentre era Presidente, ha agito fisicamente con numerosissime violazioni del corpo delle donne. E ora sua moglie è qui in corsa per la Casa Bianca soltanto perché ha fatto carriera nascondendo e proteggendo gli atti – non le parole – di Bill Clinton.

Le due unità di misura sono diverse e ingannevoli: da una parte un parlare osceno e da postribolo, dall’altra un comportamento reale di Bill Clinton. C’è una questione etica e politica profonda che in America conta più delle rivelazioni sessuali e che per noi europei di tradizione cattolica è difficile capire: la menzogna. Il rapporto fra verità e menzogna. Bill Clinton finì sotto inchiesta per aver mentito al popolo americano («Giuro che non ho mai avuto alcuna relazione sessuale con la signorina Monica Lewinsky»), che è la violazione morale più grave. Ieri mattina, spenti i televisori e recuperate le ore di sonno, giornalisti e analisti stavano ancora discutendo senza trovare una sola opinione prevalente. Prima di tutto: chi ha vinto? Chi è di sinistra risponde che ha vinto Hillary. Ma subito aggiunge un «anche se...». E in quell’«anche se», che rappresenta più del 40 per cento degli elettori oggi a favore di Trump, c’è il groviglio non risolto di questa campagna elettorale. La verità è che Trump non soltanto non è morto, ma ha ricevuto dallo scandalo un potente boost: un calcio che ti proietta su, proprio grazie alla rivelazione dell’ignobile numero registrato e diffuso su come si catturi e si consumi il corpo della donna, usando potere e denaro. Non ha funzionato. A quelle rivelazioni vecchie di dieci anni si sono sconvolti i maggiorenti repubblicani, gli impettiti governatori conservatori, le femministe, e si è particolarmente inorridito il candidato vicepresidente Pence che resta nel ticket, ma stando dentro si chiama fuori.

Il primo tempo è andato abbastanza male al repubblicano che ha ondeggiato, si è scomposto e sembrava in tono minore, benché l’attacco fosse ovvio: Hillary è partita subito con l’artiglieria sparando sulla registrazione oscena. Poi Donald si è ripreso e non ha vacillato più. E ha sferrato – per la prima volta nella storia di una campagna presidenziale degli Stati – un attacco inaudito alla sua concorrente, promettendole la galera, dietro le sbarre: «Quando io sarò presidente – le ha detto guardandola negli occhi – nominerò uno speciale procuratore per indagare su tutto lo scandalo delle sue email. E la manderò in galera » (più tardi la responsabile della sua campagna, Conway Kellyanne, si è sentita in dovere di affermare che si era trattato di «uno scherzo»).

Hillary impassibile. Ben allenata dal suo staff, non fa una piega. Fra le email sparite ne è uscita una nuova rilasciata da qualche provvidenziale supporter di Trump in cui la signora Clinton, dopo essere stata Segretario di Stato, nota con rammarico scrivendo al marito, che «purtroppo abbiamo perso il contatto con la gente: io ho guadagnato oltre 22 milioni di dollari con le mie conferenze alle grandi banche ed imprese, retribuite con oltre 250mila dollari a prestazione, ma abbiamo perso il contatto con gli elettori».

Il fatto che Trump reggesse allo scontro con nervi saldi e l’abituale sfrontatezza nel secondo dibattito a St. Louis, domenica sera, ha messo in crisi la dirigenza del Grand Old Party. È cominciato cioè ad affiorare un estremo piano B per far fuori Trump anche se vincesse le elezioni. A decidere alla fine, sia pure formalmente, sono i grandi elettori. E il Partito repubblicano, notizia di ieri sera, sta seriamente valutando se non concedere la vittoria al proprio candidato tirando fuori dal cappello dei delegati l’elezione di un conservatore rassicurante come Michael Richard «Mike» Pence. Che non tralascia occasione di attaccare e contrapporsi a Trump, che lo ha chiamato a correre con lui.

L’estraniamento dal partito – scrive il Wall Street Journal – porta rapidamente al divorzio e ieri lo Speaker del Congresso, il giovane repubblicano Paul Ryan, ha gridato da un palco improvvisato e decorato con una grande bandiera, che lui da questo momento non sosterrà più la campagna di Trump. E lo staff di Trump, per parare il colpo, sta esaminando la fattibilità di una trasformazione della candidatura da repubblicana a indipendente.

Citiamo questi pettegolezzi e rumors per dare un’idea di questo clima da guerra civile non dichiarata ma già in atto, determinata dalla saldatura di due fronti: quello degli avversari democratici di Trump fuori dal partito e quello degli insiders, gli alti ranghi del Grand Old Party, pronti a pugnalare il loro uomo pur di non perdere la loro identità e potere, come ha notato seccamente Rudolph Giuliani, uno degli ultimi alleati del difficile candidato con la zazzera volante.

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