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Viaggio nella Siria cristiana protetta da sunniti e alawiti

Tradizionalmente sostenitori dello status quo, i cristiani siriani considerano Hafez e Assad bastioni contro il jihadismo internazionale

Viaggio nella Siria cristiana protetta da sunniti e alawiti

Tra Damasco, Maaloula e Seydnaya

La storia della Siria è strettamente collegata a quella del cristianesimo. Perché prima ancora di essere il cuore pulsante dell’Islam, sotto la dinastia Omayyade (661 d.c), il Paese è rientrato per sette secoli nella sfera culturale dell’Oriente romano. E se Damasco è considerata la quarta città santa del mondo islamico dopo Mecca, Medina e Gerusalemme, allo stesso tempo indica storicamente il territorio in cui si attestano nel 43 d.c i primi gruppi cristiani. Oggi dal punto di vista numerico, pur essendo un gruppo eterogeneo (è suddiviso in tre patriarcati: greco-ortodosso, greco-melchita e siriano ortodosso), questo rappresenta una delle tre comunità cristiane più importanti del Vicino Oriente, con i maroniti del Libano e i copti d’Egitto.

Sempre in Siria si svolsero alcuni degli episodi più significativi della predicazione dell’apostolo Paolo, qui a Damasco viene adorata la tomba di San Giovanni Battista intorno alla quale tra il 705 e 715 i califfi edificarono la Grande Moschea, una delle più maestose del mondo arabo-musulmano. Ma i luoghi del cristianesimo sono ovunque, non solo nella capitale. Come a Seydnaya, un villaggio ad una ventina di chilometri dal centro città, celebre per la sua prigione che detiene circa 4mila prigionieri la maggior parte affiliati al jihadismo internazionale, la cittadina arroccata sulle montagne è stata uno dei luoghi di pellegrinaggio più importanti per i fedeli cristiani. In cima si trova il monastero di Nostra Signora, costruito nel V secolo, appartenente al Patriarcato ortodosso di Antiochia che ha sede a Damasco. Ad accoglierci alla scalinata che conduce oltre le mura è un’igumena tutta velata, o badessa, della comunità di monache di rito bizantino. A Seydnaya i miliziani anti-governativi hanno tentato invano di occupare il villaggio, ecco perché il convento è ancora oggi in ottime condizioni. Dopo una breve visita nella chiesa ci porta a pregare nella stanza dov’è custodita l’icona della madonna, sullo sfondo ci sono le fotografie del patriarca greco-melchita, di Hafez e di Bashar Al Assad. Dopo un lungo racconto sulla storia del monastero ci invita tutti, cristiani sciiti e sunniti, a recitare il “padre nostro” in arabo. Sotto al velo della monaca c’è il volto sacro e multi-confessionale della Siria che prega per la pace.

Le stesse sensazioni di pace civile e religiosa si sentono a 55 chilometri più a nord di Damasco dove è situato il villaggio cristiano di Maaloula, conquistato dai miliziani di Jabhat Al Nusra nel settembre del 2013 e liberato un anno dopo, ad aprile, dall’esercito siriano. Qui le preghiere di rito melchita si intrecciano con l’alfabeto aramaico, la lingua di Gesù, ancora oggi parlata da alcuni abitanti. L’autostrada che porta alla cittadina è scandita da posti di blocco che si succedono uno dopo l’altro ogni dieci chilometri. Da queste parti non c’è saracinesca, automobile, spartitraffico, che non abbia il tricolore siriano rosso-banco-nero stampato o disegnato da qualche parte.

Entrando a Maaloula attraverso due archi antichi ancora intatti, i pochi abitanti tornati da poco nelle loro vecchie abitazioni in ricostruzione si affacciano dalle finestre e dai balconi per osservare militari e visitatori passare. Da lontano già si vede la statua della Vergine Maria riportata qualche mese fa in cima alla montagna dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah. Gli edifici municipali, le case e i luoghi di preghiera sono un cumulo di macerie, le pareti ancora intatte conservano i segni dei proiettili delle mitragliatrici. Lentamente il villaggio si sta ripopolamento, mentre operai, militari e volontari, non solo siriani (ad esempio ci sono anche i giovani dell’associazione no profit francese “SOS cristiani”), ripuliscono e ricostruiscono gli edifici. Lo scontro in questo villaggio è stato più violento che altrove. Se lo ricordano le 12 suore del convento di Santa Tecla, costruito nel IV secolo e luogo di pellegrinaggio per i fedeli, che hanno visto con i loro occhi la furia iconoclasta dei soldati ribelli dopo essere state rapite vive e poi scambiate per 150 jihadiste donne prigioniere del governo. Ad accoglierci all’ingresso del convento è il custode padre Elias Al Shayeb che ci racconta le giornate dell’assedio. Più avanti c’è il portone di acciaio sfondato da una cannonata, a destra l’antica biblioteca completamente distrutta dopo esser stata data alle fiamme dai soldati ribelli. Salendo per le scale si arriva nella chiesa dove non è rimasto quasi nulla. I quadri e gli affreschi sono strappati, sui muri sono rimaste le scritte inneggianti alla Jihad, l’altare è stato scoperchiato, i crocifissi buttati per terra. Un ragazzino musulmano di dieci anni, Jad, ci segue durante la visita e ci ferma per raccontarci la sua fuga da Maaloula mentre l’esercito gli faceva da scudo. “Io e la mia famiglia ci siamo affrettati per prendere le cose più importanti e siamo scappati con la macchina in un villaggio qui vicino che era al sicuro” ci dice, “più che per gli spari ero impaurito dalle grida dei soldati ribelli”.

Lasciamo il convento cristiano passando accanto alle piccole moschee del villaggio. Qui tutto è sacro. Sunniti e cristiani convivono da una vita. Un tempo il suono delle campane faceva da sottofondo al canto del muezzin. Si attraversa un sentiero scavato nella roccia che sale verso l’Hotel Safir che domina la valle dove si trova il convento di San Sergio e Bacco. Due anni fa l’albergo pluristellato era la tana dei jihadisti proprio per la sua posizione strategica, oggi è diventato un cumulo di macerie. Una decina di metri più avanti la piccola chiesa greco-melchita è già in ricostruzione, nel cortile c’è chi beve il thé e chi invece pulisce per terra, Padre Toufik, da vent’anni a Maaloula, racconta che non appena aveva saputo dell’arrivo dei jihadisti aveva pregato tutta la notte prima di lasciare quel luogo di sacro splendore, per poi farvi ritorno una volta liberato il villaggio, voltandosi si rivolge a noi europei prima di congedarsi: “Non credete a tutto quello vi dicono sulla Siria, esaminate voi stessi e raccontate la vostra verità”. Questa è la lezione di un cristiano che vive in una terra martoriata dai fondamentalismi laici.

Takfiri o occidentalisti che siano.

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