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Il Vietnam insegna che la mini-guerra è inutile

«Fin dai tempi del Vietnam si è visto che contro un nemico determinato si rischia l'escalation - osserva con il Giornale l'ex capo di stato maggiore della Difesa, Mario Arpino, ai tempi dell'invasione del Kuwait - Ma poi bisogna essere convinti di volerla fare la guerra e vincerla. I raid aerei americani certo non bastano per sconfiggere il Califfato». Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, rischia la sindrome del Vietnam? All'inizio gli americani avevano mandato un pugno di consiglieri, poi sono scattati i bombardamenti e alla fine sono rimasti impantanati fra le risaie mezzo milione di uomini. In realtà Obama «ha una strategia ondivaga ed inconsistente, che sembra solo rincorrere gli eventi» spiega Arpino. E aggiunge: «Contro la ferocia delle truppe jihadiste bisogna usare la stessa determinazione fregandosene del solito politically correct, ma è esattamente quello che gli Usa non vogliono fare. Forse sperano che del lavoro sporco se ne occupi l'Iran».

Gli stessi generali americani ammettono che i raid in Iraq sono punture di spillo. «In nessun modo voglio dire che abbiamo effettivamente contenuto la minaccia o che stiamo spezzando lo slancio dello Stato islamico» ha spiegato il generale William Mayville responsabile delle operazioni commentando i raid. Caccia e droni americani lanciano fino a 100 sortite al giorno contro le postazioni jihadiste, ma le stesse fonti del Pentagono fanno sapere che hanno «effetti molto temporanei».

Secondo l'ex generale degli alpini, Carlo Cabigiosu, «si è rinunciato a intervenire in Siria quando era il momento di farlo e adesso tutti i nodi vengono al pettine». Per l'ufficiale impiegato nel nord dell'Iraq ai tempi di Saddam e dopo la caduta del dittatore «non ci sono alternative alle truppe sul terreno se si vuole sconfiggere il Califfato. Bisognerebbe andarci con delle forze occidentali ed un mandato per l'uso della forza, che prescinda da discorsi di carattere umanitario, come i francesi in Mali. Si tratta di combattere una guerra vera».

Per anni gli americani hanno sperimentato la «no fly zone» sull'Iraq e alla fine è stata lanciata l'invasione. Pure in Kosovo l'arma aerea ha annichilito i serbi, ma poi abbiamo dovuto mandare un contingente Nato sul terreno, che in minima parte è ancora presente.

Anche per il generale dei carabinieri in congedo, Leonardo Leso, che ha conosciuto il deserto iracheno, «gli assetti aerei, se non sono seguiti da una campagna di terra, diventano inutili e dispendiosi». In Afghanistan gli americani speravano di risolvere tutto con i B 52 e i mujaheddin dell'Alleanza del nord. Poi è dovuta scattare la più ingente e lunga missione della Nato fuori area.

Secondo, Vincenzo Camporini, capo di stato maggiore della Difesa fino al 2011, «nessun paese occidentale oggi è disposto a mandare truppe in Iraq». Quando gli chiediamo della strategia americana risponde: «Perché ne hanno una?». Secondo il generale in congedo dell'aeronautica «bisogna armare massicciamente i curdi». Al momento il Pentagono ha previsto l'invio di armi leggere ma i Peshmerga chiedono quelle pesanti. In Libia ci sono voluti mesi e valanghe di bombe per piegare il regime di Gheddafi. E non aver previsto un dopo con l'intervento sul terreno ha portato al rischio di una nuova Somalia alle porte di casa. «I raid lanciati nel nord dell'Iraq sono puramente simbolici e dettati da motivi di politica interna - spiega Camporini - Azioni tattiche, mentre potrebbero colpire i centri di comando e controllo con un'operazione strategica». Per farlo gli americani avrebbero bisogno di corpi speciali sul terreno per guidare i bombardamenti.

E allora si limitano ad attacchi aerei limitati contro il Califfato, che secondo Camporini «sono punture di zanzara».

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