Controcultura

"La montagna mi fa da chiesa" e altre vette di Fosco Maraini

Negli scritti dell'etnologo, il vero significato della ascesa e l'estasi quasi mistica di fronte alla bellezza della Natura

"La montagna mi fa da chiesa" e altre vette di Fosco Maraini

Farfalle e ghiacciai di Fosco Maraini (Hoepli, pagg. 157, euro 22,90, prefazione di Dacia Maraini, postfazione di Marco Albino Ferrari) raccoglie scritti eterogenei che hanno nella montagna e nell'alpinismo il loro tema centrale. Si tratta di collaborazioni che Maraini tenne con la stampa nell'arco di 60 anni, qui suddivisi in tre parti intitolate «In Occidente», «In Oriente», «In Estremo Oriente». Il bel titolo è il frutto di un'estrapolazione di un articolo che Maraini pubblicò sul il Corriere della Sera il 7 febbraio 1938 con il titolo «Palme, farfalle e ghiacciai».

Quel che emerge dell'autore, come sempre con la sua poliedrica personalità, è la capacità di mettere in attrazione polare i più svariati (...)

(...) argomenti. Come si conviene a un «dilettante». Maraini fu un dilettante nel senso che non fu uno specialista che ha fatto di un determinato percorso di studi la sua unica ragione di vita. Ma per trovare i collegamenti fra le cose ci vuole talento, un talento filosofico sintetico che indubbiamente aveva. Maraini era un sintetico, non un analitico. Il suo metodo non era meccanicistico, prevalentemente basato su sistemi di causa-effetto, ma metaforico, simbolico. Trovava similitudini, analogie: «Le Dolomiti invece colpiscono l'occhio come cattedrali, castelli, fortilizi, campanili, minareti, faraglioni più o meno isolati e dispersi sopra un vasto intersecarsi di valli». Cercava, nel viaggio, la bellezza. Non la bellezza imbalsamata nei canoni dell'estetismo, ma la bellezza viva, la naturale bellezza del mondo. «La montagna mi fa da chiesa. Le vere chiese, a parte la loro musica d'architetture e d'arti, mi danno un'angosciosa sensazione di Dio in scatola. La montagna invece è Dio fresco. Dio libero. Dio diretto». Non a caso all'ingresso della sua casetta apuana di Pasquigliora, nelle vicinanze del luogo in cui riposa, sia posta una stampa antica col motto di Leonardo Da Vinci: «Che ti move, o omo, abbandonare le tue proprie abitazioni delle città e lasciare lì parenti et amici, et andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo».

Attraverso la narrazione di viaggio e di ascesa (recit d'ascension), apriva frontiere di conoscenza: per far comprendere perché la montagna lo attraeva, con la sua differenza qualitativa rispetto al mondo urbano (indipendentemente dalla distanza geografica, cioè dalla differenza quantitativa), racconta di «pastori (...) uomini d'un altro tempo, d'un'altra specie (...) testimoni di un universo antichissimo e segreto». E poi, «lassù ci sono gli omobestie», dice un pastore che incontra Maraini e l'amico Bernardo nella prima camminata apuana in montagna della sua vita.

Spesso, nel suo lessico, si avverte una magnetica predilezione per i sostantivi esotici cioè persiani, arabi, urdu, pashtu, tibetani. Maraini li saccheggiava senza nascondersi, nei titoli di libri come Paropàmiso o Dren-giong, nelle epigrafi, a volte nell'incedere dell'esposizione, perché il suo percorso ha attraversato di continuo quei luoghi lontani. E se è vero, come è vero, che la lingua costruisce le fondamenta del pensiero, tutto il suo immaginario è costruito su una geografia del remoto, dell'altrove, anche quando le coordinate dell'etnologo, dell'orientalista, del viaggiatore, del narratore, del fotografo e alpinista Maraini sono sulle Apuane, sulle sue montagne toscane, dove, dietro l'angolo di casa (Firenze), si trovano le cose nascoste meno scontate, più faticose da raggiungere: «Lontanissimo, oltre la conca di Firenze, oltre colli e poggi pistoiesi e pisani, l'orizzonte apparve allora seghettato da una selva di punte irte, irregolari e fantastiche, d'una tinta paonazza cupissima. Che sono quei monti? chiesi molto incuriosito, quasi impaurito. Sono le Alpi Apuane mi fu spiegato. Ammirai a lungo lo spettacolo inconsueto che mi faceva pensare, non so perché, alla creazione del mondo: terre ancora da plasmare che emergevano da un vuoto sconfinato, color dell'incendio». Fu la folgorazione sulla via delle montagne.

Il mondo che prende forma nel pensiero di chi ha letto e conosciuto Fosco Maraini, ma anche di chi lo legge oggi, è quello in cui l'uomo, con le sue sublimi opere e con le sue infime miserie, è una parte del tutto. E il tutto è l'universo. A partire dalla natura più comunemente intesa come l'insieme di animali, piante, terre sconfinate e remote, piccole e grandi montagne, arrivando fino alla luna e all'infinito oltre disabitato. Il che fa sentire la presenza dell'uomo, come singolo e come specie, nel tempo e nello spazio, limitata. Si avverte sempre nella sua scrittura il senso di un punto nell'infinito.

La comprensione più autentica di Maraini, morto l'8 giugno 2004, proviene dalle sue parole scritte in forma di «lettera di Fosco agli amici» quale commiato da leggersi durante la cerimonia funebre che si tenne giovedì 10 giugno 2004 nella Sala d'armi di Palazzo Vecchio in Firenze. Voleva con ciò spiegare il perché di una cerimonia laica che, per apparente paradosso, rivela proprio la sua profonda spiritualità che traluce in ogni sua opera: «Nel panorama mondiale delle religioni le Rivelazioni sono moltissime (...). Di fronte a questa falange di Rivelazioni ci si chiede: Gentile Signor Iddio, quale è il tuo vero, autentico messaggio? Non starai giocando con l'uomo? Quali sono le garanzie che una Rivelazione sia autentica e l'altra no? Dinanzi a questo problema, che mi s'è posto in termini di particolare evidenza, data l'esperienza personale di viaggi e la familiarità con più civiltà lontane tra di loro, ho optato per la Rivelazione Perenne; cioè il regime religioso in cui Dio parla, per chi vuole ascoltarlo, non attraverso messaggi singolari concessi in punti particolari dello spazio ed in momenti particolari del tempo (Rivelazione Puntuale), bensì sempre ed ovunque, nella natura e nella vita umana intorno a noi».

«Citluvit è tornato alla sua terra» si legge sul suo epitaffio autografo sulla sua tomba all'Alpe di Sant'Antonio, sulle Apuane. Il «Cittadino della luna in viaggio di istruzione sulla terra» amava la terra e, quindi, la guardava dalla distanza (non eccessiva) della luna.

Lorenzo Scandroglio

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