Cultura e Spettacoli

Montanelli segreto, così Indro si raccontava a se stesso

Dagli anni della contestazione all’attentato brigatista. Ecco le pagine più private del fondatore del "Giornale". Il mio Indro maestro nello stupire/ di Mario Cervi

Montanelli segreto, così Indro  
si raccontava a se stesso

Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo in anteprima alcuni stralci de "I conti con me stesso. Diari 1957-1978" di Indro Montanelli, fondatore de "Il Giornale". Si tratta della prima edizione dei diari del giornalista, composti da dodici quaderni e conservati dall'Università di Pavia.

Milano, 27 novembre 1966

A pranzo con Ottone, appena rientrato da Mosca, e con Bettiza, da poco tornato dall’Europa orientale. Secondo Ottone, in Russia si sta delineando una specie d’Illuminismo che, scendendo dal vertice, investirà anche la base, e gradualmente liquiderà il sistema in senso socialdemocratico. Bettiza non è d’accordo. Secondo lui il processo non sarà evolutivo, ma procederà per successive lacerazioni, per la totale mancanza, anzi impossibilità, di una «dialettica interna». Devo dire che l’analisi di Bettiza mi persuade di più, forse anche perché mi persuade di più l’uomo. \

Roma, 3 agosto 1969

Da due giorni qui, in casa dei miei vecchi. \ Da mia madre ho ereditato soltanto le terribili crisi depressive che a regolari scadenze mi distruggono, ma non il coraggio con cui lei le affrontava: il coraggio di chi vive tutto e solo di cuore. L’ho odiata, per questo male di cui mi ha contaminato. Una volta, al colmo della disperazione, glielo rinfacciai. Ecco di cosa mi ricorderò, quando sarà morta. Di questo, e di un altro giorno in cui lei mi disse, ma quietamente, senza intenzione di ferirmi: «Lo sai che ho soggezione di te?». Sono passati tanti anni da allora. Ora lei ne ha ottantatré, presto chiuderà gli occhi, e solo in quel momento io troverò la voce per dirle che non è vero, non potevo farle soggezione, non volevo fargliela, era assurdo e mostruoso che gliela facessi… Perché non glielo dico ora, che mi può sentire? Perché? Perché?

Cortina, 19 agosto 1969

Scalfari mi attacca sull’Espresso. È Licia Compagna ad avvertirmene e a porgermi il giornale. Si meraviglia ch’io mi limiti a misurare la lunghezza dell’articolo. «Non lo leggi?» chiede. «No. Vedo solo che parla di me per una cinquantina di righe. E mi basta. A pubblicità donata non si guarda in bocca.» Colgo nei suoi occhi un lampo d’ammirazione. Ma a casa l’articolo lo leggo. E mi arrabbio. Però decido di rispondere solo domani, quando la rabbia mi sarà sbollita.

Cortina, 20 agosto 1969

Ho risposto a Scalfari. Era facile. Scalfari è uno di quei duellatori che, per imprimere più forza al fendente, seguono col corpo la sciabola e perdono la guardia. Ci vuol poco a infilarli. Ma ora che ho spedito la replica, mi chiedo se ho fatto bene. Di Scalfari non ho un’opinione precisa. C’è in lui un pizzico di Baldacci, un pizzico di Bel-Ami, e perfino un pizzico di Ramperti. So che ha fatto parecchi soldi. La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa, o vuole fuggire da qualcosa? Nella sua frenesia c’è del patologico. Le sue polemiche (come questa con me) sono quasi sempre gratuite. Questo nemico di tutti è soprattutto nemico di se stesso, animato da un irresistibile cupio dissolvi.

Milano, 16 novembre 1969

Mi riferiscono, di Bocca, questo giudizio su di me: «Sempre il più bravo di tutti. Bravissimo. Troppo bravo. Ma mettendo lo stesso impegno a scrivere gli articoli su Venezia e quello sull’arbitro Lo Bello, dimostra che in realtà non è impegnato in nulla». È vero. Non sono impegnato in nulla. In nulla, meno che nel mio mestiere. Fiorentina-Bari 3-0. E Chiarugi capo-cannoniere!

Milano 18 novembre 1969

A cena con Buzzati che mi si mostra grato per le reticenze con cui ho recensito il suo Poema a fumetti. In realtà gli dispiace che non mi sia piaciuto. È sempre convinto che sia il più buzzatiano dei suoi libri. Io fingo di crederlo, e così tutta la conversazione rimane nel falso. Poi arriva Soldati reggendosi su una stampella. Da quando si è rotto il femore, ha inventato un’apposita divisa: la divisa di colui-che-si-è-rotto-il femore, e seguita a portarla anche ora che il femore si è – credo – completamente rimesso in sesto: berrettino di cuoio a visiera, giacca abbondante su una specie di camice da infermiere, pantaloni a torcia. Senza dirmelo esplicitamente, mi fa capire che, se non parlassi del suo Vino al vino, commetterei un gravissimo reato di omissione, trattandosi del libro più importante degli ultimi dieci anni. \
Milano, 19 novembre 1969
Sciopero generale per il caro-case. Un pretesto da nulla. Ma è bastato per immergere Milano in un’atmosfera da 8 settembre. Strade vuote. Saracinesche abbassate. Enorme spiegamento di polizia. Mentre pranzo con Spadolini, Cervi e Zappulli, giunge notizia che in un tafferuglio al Lirico un agente è stato ucciso dai “cinesi”. «Meno male che è toccata a un agente» diciamo in coro, eppoi non osiamo guardarci negli occhi. Anche noi apparteniamo a questa borghesia codarda che pretende appaltare alle forze dell’ordine il compito di farsi sputacchiare, pestare e ammazzare per tenerne al riparo se stessa. E non vuole nemmeno pagargli uno stipendio decente. \

Milano, 20 novembre 1969

Cervi e Zappulli mi portano una notizia gravissima. Su ordine di Spadolini, ieri sera Cervi aveva scritto un breve commento, ma energico e vibrato, sull’assassinio di ieri. Spadolini lo ha modificato attenuandolo «perché» ha detto, «la commissione interna ha fatto capire chiaramente che, se il giornale non avesse rispettato la versione dei fatti fornita dai sindacati, ne avrebbe impedito la pubblicazione». Spadolini è partito stamani per Roma. Aspetterò il suo ritorno per sapere da lui quanto c’è di vero e cosa intende fare. Capisco l’imbarazzo in cui si trova, avendo alle spalle una proprietà disposta a tutto pur di evitare «grane», e una redazione in cui c’è parecchia gente pronta anche a subire una censura che oltre tutto le consentirebbe di fare con lo zelo e il servilismo quella carriera che non è riuscita a fare col talento che non ha. Ma io, che non ho responsabilità direttoriali e devo decidere solo di quelle mie, non ci sto. Se le cose stanno come me le riferiscono, se veramente si profila la minaccia di un sindacato partigiano sulla mia attività di giornalista, solleciterò a Spadolini un incontro con la proprietà e le chiederò se intende o no resistere sul principio della assoluta insindacabilità del giornale, cioè della libertà di stampa, anche a costo di subire scioperi e violenze. Se il loro «sì» non è esplicito e fermo, me ne vado e li denunzio alla pubblica opinione.\

Milano, 21 novembre 1969
Funerali dell’agente ucciso l’altro ieri. Meno gente di quanto sperassi, ma più di quanto temessi. Avviatici in due o tremila, altri hanno preso coraggio e si sono uniti. È chiaro che pochi esempi di risolutezza basterebbero a creare il contagio. In Corso Emanuele, quando il corteo è arrivato davanti alla Chiesa per la cerimonia funebre, un gruppo di giovani s’è messo a fischiare. Ne è seguito un tafferuglio in cui mi sono trovato coinvolto, ma di cui non ho capito chi fossero i protagonisti, o meglio gli antagonisti dei contestatori. Temo che si tratti di un gruppo di missini, presenti dietro il feretro col loro gagliardetto. Spari non se ne sono sentiti, ma qualche ferito ci dev’essere stato. Per fortuna, la polizia non è intervenuta, sicché nessuno potrà domani accusarla di «provocazione», come hanno fatto Eugenio Scalfari e Paolo Grassi nella testimonianza che hanno reso sulla morte dell’agente. \ Di Bella mi ha riferito alcuni inquietanti episodi di notizie di cronaca cestinate per paura di reazioni da parte della commissione interna: fra l’altro il rapporto sull’uccisione dell’agente, steso e sottoscritto da due impiegati del «Corriere» che vi si trovarono presenti. A quanto dice Di Bella bisogna fare un po’ di tara. Ma che Spadolini faccia di tutto per evitare una prova di forza che obbligherebbe i proprietari ad assumere le loro responsabilità, temo che sia vero. Di Bella dice che io sono l’unico a poterlo fare perché rappresento l’unica bandiera di cui il «Corriere» non può fare a meno e che, anche se perdessi la battaglia e fossi costretto ad andarmene, i migliori mi seguirebbero. Già: ma dove? Gaetano dice che vuol parlarne a Rizzoli, pur senza impegnare la mia parola. Rizzoli, dice, farebbe immediatamente il quotidiano, se io fossi disposto ad assumerne la direzione. E forse infatti non mi resterà altra scelta. Ho sessant’anni. Devo pensare a concludere in qualche modo la mia vita e la mia carriera. Una bella battaglia in difesa della libertà sarebbe un tramonto di fuoco, quello più in carattere col mio carattere, cioè col carattere che la gente m’impresta. Molti sconosciuti, nel corteo di oggi, mi hanno identificato e interpellato: «Scriva la verità... Difenda l’Italia e gl’italiani... Solo Lei può e sa farlo...». Forse verrebbero anche al mio funerale, come son venuti a quello dell’agente. Perché in un funerale finirebbe di certo.

Milano, 9 marzo 1972

Pranzo di addio di Spadolini a tutta la redazione, al Principe di Savoia. C’è voluta, mi dicono, l’autorità di Palumbo e Di Bella per condurvi i colleghi che non volevano andarci. Quando Spadolini entra a braccio di Montale, mi scappa detto: «Ecco il senatore a vita col senatore a morte». Nel discorso di chiusura, l’anfitrione eleva a se stesso due monumenti: uno come direttore uscente, l’altro come parlamentare entrante.

Milano, 2 giugno 1977
È la festa della Repubblica. Io la celebro ricevendo nelle gambe quattro pallottole di rivoltella, calibro 9. Me le sparano alle 10.10, appena uscito dall’albergo Manin, alle spalle. Faccio a tempo, voltandomi, a vedere uno dei due killer che seguita a sparare da una distanza di 4-5 metri. Ma sono talmente sorpreso e frastornato che non riesco a fissarne nella memoria il volto. Aggrappandomi all’inferriata dei giardini pubblici, penso: «Devo morire in piedi!». Questo pensiero stupido, retaggio sicuramente del Ventennio, è forse quello che mi salva: cadendo, avrei probabilmente preso l’ultima scarica nell’addome. Solo quando il killer ha finito, cedo al languore che m’invade e scivolo a terra. Potrei comodamente uccidere con la mia pistola l’uomo che ora mi volta le spalle per fuggire. Ma ce n’è un altro che lo protegge con l’arma in pugno. Mi limito a gridargli: «Vigliacchi!». Un cane lupo, dall’altra parte dell’inferriata, sporge la lingua fra le sbarre e si mette a leccarmi la faccia. La donna, che lo tiene a guinzaglio, è terrea. Le sorrido, e dico: «Non si spaventi!». Ho subito la sensazione che nessuna parte vitale è lesa. Intorno a me, coperto di sangue, è subito gran confusione. Tra i primi soccorritori riconosco i nostri autisti Mele e Colonna, e Paolino Longanesi. Erano alla finestra, e hanno visto, ma non avevano capito che la vittima ero io. Trovo la forza di dirgli in modo che tutti sentano: «Coraggio, ce la farò anche stavolta». Poi tutto diventa spettacolo. \

Milano, 3 giugno 1977

Anche L’Unità esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica, ma con un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo Bontà loro per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l’attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare. Ma la cappella più grossa la fa il Corriere che titola su cinque colonne sul centro pagina: «Attentati contro giornalisti», mettendo il mio nome solo nel sommario. \

Milano, 4 giugno 1977
Le ferite vanno bene anche perché non ho il tempo di pensarci: è tutto un viavai di amici, nemici, conoscenti, sconosciuti: mi sembra di essere la Madonna di Loreto. Viene anche la televisione, e io mi lascio intervistare minimizzando l’accaduto (mi dicono che Cervi, che lo ha commentato l’altro ieri sera da Montecarlo, ha commosso tutti con la propria commozione). Mi telefona Andreotti, poi Cossiga, poi Forlani, poi Gianni Agnelli. A tutti rispondo scherzando, che non mi prendano per un piagnone. Dal giornale mi mandano tre sacchi di telegrammi: ne hanno contati quindicimila. Ma la notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi – quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti – si è brindato all’attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici. Colette regola magistralmente il flusso dei visitatori, ma si eclissa quando arriva Spadolini (Afeltra, assiduo al mio capezzale, mi aveva supplicato di riceverlo: avevo accettato a patto che non riaprisse le vecchie questioni). Non si è fatto vivo La Malfa, ma La voce repubblicana ha espresso, freudianamente, il suo cordoglio. A un certo punto arriva Ottone, accompagnato da Pilogallo. Per fare fronte alla sua ipocrisia, chiamo a raccolta la mia, e lo accolgo cordialmente, ma fingendo di non accorgermi che vorrebbe abbracciarmi (questo è troppo). A un certo punto mi dice: «Enzo (Bettiza) è stato un po’ duro con noi». Qui non mi trattengo. «Meno di quanto avrebbe dovuto» dico. «La notizia era il mio nome. Abolendolo, hai svalutato la notizia. Ed è strano che lo abbia fatto proprio tu, che della notizia hai sempre predicato la sacralità». \

Cortina, 9 agosto 1977
Quelli di Azione comunista hanno fatto saltare col tritolo un ripetitore di Telemontecarlo e lasciato un volantino in cui si minaccia di chiuderci la bocca anche fisicamente. Ordino di dare il massimo rilievo alla notizia e di dedicarle domani un fondo di Cervi. Questi attentati ci servono a meraviglia: servono a dimostrare che comunisti e terroristi si muovono, sia pure con mezzi diversi, sullo stesso piano e con gli stessi obbiettivi.

Milano, 6 ottobre 1977

Granzotto mi racconta com’è venuta fuori la mia candidatura alla direzione del Corriere. È stato Ottone che, invitato da Rizzoli a designare il suo successore, ha detto: «Non c’è che Montanelli. Guardate cosa ha fatto con niente». Curioso tipo. Come non ama, così non odia nessuno.
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A., Milano

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