Cultura e Spettacoli

Montesquieu, il potere logora chi non lo crea

Charles de Montesquieu (1689-1755) s’interessò sempre all’Italia. Fin dalla gioventù - come si deduce dalla sua Historia romana (1705) - per lui Roma incarnò storia, diritto, antiche tradizioni. E fu al ritorno da un soggiorno italiano (agosto 1728-luglio 1729) che scrisse capolavori come Considerazioni intorno alle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) e Lo spirito delle leggi (1748). Anche per questo Montesquieu continua a esser letto e commentato in Italia, dove la sua ricezione ha proceduto con la formazione dell’unità nazionale. Lo dimostrano i saggi che Domenico Felice gli ha dedicato dal 1990. E ancora venerdì scorso La Repubblica riprendeva l’interessante dibattito di Micromega sulla legalità, concernente anche Montesquieu: ciò che vi sostiene Barbara Spinelli corrisponde all’interpretazione liberale classica sulla concezione dei poteri in Montesquieu. Interpretazione basata una lettura a mio avviso anacronistica: la concezione dei poteri in Montesquieu è ben più complessa.
Innanzitutto Montesquieu è noto specialmente come teorico politico, ma la sua teoria politica deriva da una teoria sociale. Nella tesi sostenuta nel 1892 a Bordeaux, il sociologo Emile Durkheim non esitava a dire che «in Montesquieu si gettavano le basi della scienza sociale». Nello Spirito delle leggi, che vuol studiare «le leggi, i costumi e i diversi usi di ogni popolo della terra», insieme alle loro cause fisiche (geografia, temperatura, clima) e morali (costumi, credenze e tradizioni), Montesquieu pone infatti che la società forma un tutto, dove è impossibile isolare del tutto il diritto dalla morale, la politica dalla religione, il commercio dall’economia, ecc. Così mostra che la forma globale d’una società estende la sua influenza su ogni aspetto dell’esistenza sociale.
Ma ciò che più interessa è quel che - col linguaggio odierno - chiameremmo il suo no all’etnocentrismo. Nelle Lettere persiane (1721) - per Goethe «uno dei più bei monumenti di quel secolo, anzi di tutti» - come nelle Considerazioni o nello Spirito delle leggi, Montesquieu invita in un certo senso al riconoscimento dell’Altro, fatto notevole per i tempi. Ciò anche perché il suo approccio non si fonda su principi religiosi. Studiando le varie società dell’epoca, si concentra sulle realtà sociali come risultano all’osservatore, non su quel che la teologia dogmatica definisce come un modello unitario d’umanità.
Con un approccio ben più descrittivo che morale («Qui si dice ciò che è, non ciò che deve essere»), Montesquieu constata che la diversità delle leggi e delle istituzioni è in rapporto con quella fra gli uomini: le differenze che si constatano fra i popoli si radicano dunque nella natura delle cose. Ciò non lo porta certo a mettere su un piano d’eguaglianza le istituzioni che studia, ma a tener conto del contesto prima di giudicare. Infatti certi costumi diversi dai nostri possono avere basi legittime in certe società.
La conclusione che se ne trae è che in regola generale non vanno formulate regole valide per ogni popolo. Montesquieu invita dunque il legislatore a conformarsi innanzitutto al genio del suo popolo. Scrive: «Il governo più conforme alla natura è quello la cui disposizione particolare aderisce meglio all’inclinazione popolare». Non cela neppure la predilezione per la monarchia, ma non per questo la trova la forma di governo migliore in sé. Sulla stessa linea sostiene che lo zenith di Roma fu quando permise ai popoli sottomessi di continuare a vivere secondo le loro usanze.
Contrariamente a quanto preteso da Ernst Cassirer, che gli attribuiva un «senso del divenire storico» abbastanza paragonabile all’ideologia illuminista del progresso, Montesquieu non cerca nemmeno di ricondurre la diversità dei popoli a una qualsiasi universalità, né di integrare i fatti storici in un’evoluzione globale delle società umane, retta dall’idea di un progresso lineare continuo. In tal senso non è un «filosofo della storia», un pensatore storicista, ma piuttosto un filosofo delle storie, come Herder e Vico. Anche la nota teoria della divisione dei poteri di Montesquieu, spesso così mal compresa, deriva dal principio che le varie funzioni pubbliche vanno ripartite fra mani diverse, non perché si neutralizzino l’un l’altra, ma per meglio rivaleggiare a vantaggio di tutti.
In fin dei conti, è Montesquieu a unire Montaigne, anche lui originario della zona di Bordeaux, al normanno Alexis de Tocqueville, che del resto gli s’è ispirato spesso, tanto da esser talora definito il «Montesquieu del XIX secolo» (Jean-Jacques Chevallier). Nella Democrazia in America, anche Tocqueville s’interroga infatti sulla dialettica fra legge e usi. Come Montesquieu, denuncia l’assolutismo, che si somma alla soppressione di libertà locali e corpi intermedi. Anche lui, poi, s’interessa alla storia di lunga durata, mettendo l’accento sul «come», più che sul «perché». Così, nell’Ancien régime e la Rivoluzione, mostra che la rivoluzione francese non spezza, ma prolunga per molti versi la tradizione dell’Ancien régime, estremizzando l’accentramento amministrativo (ecco il giacobinismo) a danno delle autonomie locali, eredi delle libertà feudali; e imprime sulla nazione, nel senso politico del termine, lo stesso assolutismo e la stessa onnipotenza tipica del re (il potere cambia titolare ma resta assoluto).
La differenza fra Tocqueville e Montesquieu è nell’idea che ciascuno ha della libertà politica. Vedendo nella libertà un’idea d’origine germanica («I nostri padri, i Germani, guerrieri e liberi» è formula ricorrente nei suoi scritti), per Montesquieu tocca alle istituzioni preservare questa libertà: i cittadini sono liberi quando li guidano «governi moderati». Per Tocqueville, invece, la libertà dipende anche dal «valore» dei cittadini (nel senso aristotelico del termine).
Tocqueville difende la democrazia, ma capisce anche che essa non sempre immunizza dal dispotismo. L’epoca democratica si caratterizza per avidità di piaceri, gusto dell’eguaglianza che può compromettere la libertà e soprattutto una forma nuova di conformismo, che può togliere ai singoli la voglia di partecipare agli affari pubblici. Insomma Tocqueville teme che il culto dell’individuo distrugga il cittadino. Ciò che scrive sul «tipo di dispotismo che le democrazie devono temere» evoca il tempo degli «ultimi uomini» di Nietzsche.

Montesquieu annuncia Tocqueville, ma Tocqueville va oltre.
(Traduzione
di Maurizio Cabona)

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