Moro non avrebbe permesso l’uso politico della giustizia

La «Giornata della memoria» appena istituita con legge per ricordare il 9 maggio di ogni anno tutte le vittime del terrorismo ha il merito, fra l’altro, di restituire la morte di Aldo Moro, ucciso appunto il 9 maggio del 1978, alla responsabilità dei suoi veri assassini. Che, per quanto identificati, processati e condannati con pene durissime, hanno già da tempo riacquistato la libertà, affollano con i loro racconti autobiografici librerie, salotti televisivi, convegni di ogni tipo.
E si offendono se qualcuno osa criticarne la visibilità contrapponendola all’indifferenza abitualmente riservata a quanti hanno pagato con la vita o, da familiari, stanno ancora pagando col dolore gli anni di piombo. Rivendicano, questi signori dalle mani sporche di sangue e lavate troppo in fretta da un sistema giudiziario e mediatico che fa semplicemente inorridire, la buona fede che li avrebbe spinti alla lotta armata per vendicare una resistenza tradita, una ingiustizia sociale troppo diffusa, le stragi di Stato e tutte le altre baggianate dei loro deliranti proclami di morte.
A rendere protervi questi assassini e i loro epigoni hanno in qualche modo contribuito ultimamente coloro che, a rimorchio di alcuni sequestri risolti all’estero dai nostri governi pagando riscatti d’ogni tipo ai terroristi, hanno riproposto il tema della inopportunità della linea della fermezza adottata contro i rapitori di Moro in Italia ventinove anni fa. Alcuni politici hanno fatto tale e tanta autocritica, ponendosi problemi liquidati nel 1978 come provocazioni o collusioni con il terrorismo, da avere accreditato la sensazione che ad ammazzare Moro fossero stati loro stessi, o i loro predecessori al governo o alla guida dei partiti, più che i brigatisti rossi. Come se questi ultimi fossero stati in fondo costretti ad ammazzare l’ostaggio, cinquantacinque giorni dopo averne sterminato per strada la scorta come in una macelleria, dagli «spietati» rifiuti di Andreotti, Cossiga, Zaccagnini e Berlinguer di trattare la liberazione del prigioniero.
Tra i pentiti o i dubbiosi della linea della fermezza il più sofferente è apparso Piero Fassino. Al quale è tuttavia scappata una verità quando ha detto che senza la morte di Moro «avremmo forse salvato la Repubblica da una lacerazione politica e istituzionale che negli anni successivi avrebbe prodotto conseguenze dirompenti».
In effetti Moro, in qualsiasi posto avesse potuto ancora esercitare la sua indiscussa influenza, non avrebbe permesso ai comunisti l’uso politico della giustizia. «Non ci lasceremo processare sulle piazze», ammonì in Parlamento parlando della vicenda Loockheed l’anno prima di essere ucciso. Senza di lui i processi di piazza sono dilagati.


Sono tali anche quelli intossicati ancora dalla politica nelle aule giudiziarie quando vi finiscono gli incauti avversari di certa sinistra.

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