Controcultura

Morte, poesia, mistero e ribellione, così Mary Shelley creò un mito

La prima versione del 1818 fu scritta da una ragazza. La vita la cambiò

Morte, poesia, mistero e ribellione, così Mary Shelley creò un mito

È l'autunno del 1822. Percy Bysshe Shelley, suo marito, è morto a luglio, in un naufragio al largo di Viareggio. Mary Shelley, dopo una serata con l'amico George Byron, nel suo Diario si analizza così: «Una che, interamente e dispoticamente assorbita dai suoi sentimenti, vive per così dire una vita interiore, del tutto diversa da quella esteriore e apparente». Da fuori, gli altri la vedono fredda. Dentro di lei scorre «una corrente sottomarina», la lava di un vulcano.

A volte esplode, come succede al Tambora nel 1815: è per via di quell'eruzione che nel 1816, «l'anno senza estate», sul Lago di Ginevra, dove sono in vacanza, Mary (che all'epoca si chiama ancora Godwin, perché sposerà Shelley a fine anno, dopo il suicidio della moglie di lui), la sua fin troppo inseparabile sorellastra Clare, Shelley, Byron e John Polidori non possono mettere il naso fuori da Villa Diodati. Piove, fa freddo, si annoiano. Così il Lord propone agli amici: «Inventiamo delle storie di fantasmi». Ci riescono solo Polidori, che scrive Il vampiro, e Mary, che scrive Frankenstein. La lava è fuoriuscita. Ha 18 anni. Il romanzo, corretto e rivisto anche con l'aiuto di Shelley, esce, anonimo, nel 1818. Non è un successo. Saranno le trasposizioni teatrali a renderlo sempre più celebre. Nel 1831, quando viene ripubblicato, le vendite vanno benissimo. Duecento anni e innumerevoli versioni (soprattutto cinematografiche) dopo, Frankenstein non è più il romanzo, geniale, di una ragazzina: è il mito, duplice, della contemporaneità. L'ambizione della conoscenza che diventa distruzione e il mostro che possiamo creare. E alimentare, se lo abbandoniamo come fa Victor Frankenstein, perché la creatura è orribile.

L'abbandono è la prima esperienza di Mary: nasce il 30 agosto 1797 e sua madre, la filosofa e pioniera femminista Mary Wollstonecraft, muore dieci giorni dopo il parto. Il padre William Godwin, filosofo radicale, la cresce secondo i suoi principi (almeno fino a quando lei, ragazza madre, fugge con Shelley, uomo sposato), nel culto della madre, nell'amore per la letteratura, l'arte, l'intelligenza coltivata con tenacia. Mary Shelley impara a leggere seguendo con il dito le lettere incise sulla tomba di sua madre. La genesi, la creazione, è morte: questo sperimenta in casa sua, a Londra, ogni giorno; oltre a incontrare William Blake, William Wordsworth o il pittore Johann Heinrich Füssli (ex amante della madre). O Samuel Taylor Coleridge, che a otto anni Mary ascolta, nascosta dietro il divano, leggere La ballata del vecchio marinaio. Walton, il narratore di Frankenstein, cita proprio i versi di Coleridge, mentre descrive il suo viaggio fra i ghiacci. In quel romanzo che, come ha detto Emmanuel Carrère, «non è un libro scritto bene, ma è un libro che la gente continuerà a leggere, anche quando tanti libri scritti bene saranno dimenticati», la giovane Mary Shelley riversa tutto. Nel giugno del 1814 ha conosciuto Shelley e sono fuggiti insieme. Lei rimane incinta, la famiglia la emargina, la società londinese non approva, il figlio nasce prematuro e muore. È solo una delle tante tragedie della sua vita.

Mary Shelley non è il personaggio di un romanzo, anche se lo può sembrare. Lo racconta bene una nuova biografia, La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley, della poetessa inglese Fiona Sampson (Utet, pagg. 394, euro 25). Mary è straordinaria, riesce a mantenersi con la scrittura, sopravvive alla morte di tre figli e a un aborto, al suicidio della sorellastra Fanny, ai tradimenti e all'indifferenza di Shelley (che spessissimo sembra preferirle la sorellastra Clare), alla morte del marito per il quale ha sacrificato carriera, dignità e amor proprio, alle meschinità degli amici, all'ostilità dei benpensanti, alla morale vittoriana, alle difficoltà finanziarie e ai tentativi della famiglia Shelley di portarle via l'unico figlio rimasto (Percy Florence, che le resterà vicino fino alla fine), alla morte dell'amico Lord Byron, che la stima al punto da chiederle di occuparsi della prima revisione delle proprie opere, alla depressione, all'ossessione per la madre, alla freddezza del padre adorato. Mary sopravvive ma, anche per via di tutto questo, nel 1831 Frankenstein esce in una nuova versione, in cui le modifiche sono quelle che il destino le ha fatto toccare con mano.

In Italia, fino a oggi, abbiamo letto questa edizione: quella in cui Mary non lascia scampo a Victor, perché la sua strada è segnata. È la differenza principale rispetto alla prima versione che proponiamo in queste pagine, tratte da Frankenstein 1818 (Neri Pozza, in libreria dal 18 ottobre). Oltre ad alcune differenze di nomi e luoghi, e al fatto che Elizabeth, la donna amata da Victor, sia sua cugina (diventerà la sorella adottiva, per evitare accuse di incesto), nella versione originale il percorso del protagonista non è ancora segnato: ha la possibilità di cambiare il suo destino, di allontanarsi dalla filosofia naturale e dagli esperimenti con l'elettricità (che nel 1831 diventerà il galvanismo). Può scegliere di evitare la catastrofe che realizza con le sue mani. Ma questo succede quando Mary è ancora una ragazza, innamorata di un poeta romantico che si chiama Shelley, e quando un vulcano ha sconvolto il mondo.

Poi non succederà più. Mary cura l'edizione delle opere del marito, pubblica altri cinque «romanzi di idee», saggi, articoli letterari, libri di viaggio. Ormai la considerano «un alto rango nell'aristocrazia del genio».

Muore nel 1851, probabilmente per un tumore al cervello.

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