Cultura e Spettacoli

Mourinho, fra Heidegger e Dr. House

La filosofia di Mourinho è una pausa. José parla, si ferma, riparte: ha appena pensato che cosa dire. «Io vorrei una Aston Martin, ma se mi chiedi un milione per una Aston Martin io ti dico che sei pazzo, perché costa duecentocinquantamila euro». Mou pesca da Epicuro, da John Stuart Mill, dall’utilitarismo, dalla ricerca della felicità attraverso un mezzo. C’è qualcosa e c’è lui. José ride con una coppa in mano, con uno scudetto sulla maglia, con una macchina in garage. È sereno con un contratto firmato o con un acquisto appena fatto. Ha bisogno di una cosa. Toccare, vedere, sentire. Non necessariamente tangibile, ma presente. Lo sa, non lo sa, lo guida Tami ex studentessa di Filosofia. La verità è inutile e superflua, perché Mou così, di getto, alternando impulsività e riflessione, scava dentro storie del pensiero senza neanche accorgersene. È una miscela che mette insieme cose lontane nel tempo, nello spazio e nel risultato: con lui, però sembra tutto lineare, calzante, preciso. Perché Mourinho è individualista e però innamorato della collettività, è materialista ed esistenzialista, etico e immorale.
È un relativista presuntuoso, un ossimoro filosofico, perché se uno abbatte l’assoluto e se ne fotte, poi non se la può prendere. José lo fa perché adora le contraddizioni, le cavalca, le agita: va dove serve, segue un filo, un modo di pensare e di vedere, nel quale è la vita che s’aggiorna prima che il carattere. Mou parla per dire quello che pensa e però a volte perché gli altri pensino il contrario. È il desiderio di ottenere, la voglia di raggiungere l’obiettivo prima possibile: il risultato arriva prima di ogni altra cosa. Sul campo e fuori, con gli avversari e con i giornalisti: è il pragmatismo, primo e vero dogma del pensiero mourinhiano derivato dall’utilitarismo. «Agli attaccanti come Ronaldo puoi chiedere al massimo un pressing di tre secondi, ma a me serve di più». José punta ad avere quello che riesce con quello che ha. È la sua forza, è il suo spirito, come nella famosa storia dell’omelette, uno degli evergreen del repertorio aneddotico: «Lo stile è importante, ma è come le omelette e le uova. Avete presente un’omelette? Senza uova non c’è omelette e se ci sono le uova poi c’è omelette e omelette. Dipende dalle uova. Se vai in un supermercato e trovi uova di prima, seconda e terza scelta, alcune saranno più costose di altre, ma daranno un’omelette migliore di altre. Ecco, se non puoi comprare le uova migliori, allora hai un problema». È come per la Aston Martin. Identico. La macchina e le uova sono la metafora del giocatore e della vita: Mou non prende quello che viene, come viene, senza essere disposto a farsi fregare per avere quello che vuole. José dice a fine partita che parlerà della squadra del futuro. Perché è scritto nell’idea: vincere. Non gioca bene? Non fa niente, conta quello che c’è alla fine. Zero, uno, tre punti. La deriva dell’utilitarismo verso il pragmatismo totale è la forma di attacco e di autodifesa. «Chi si ricorderà di te se non hai vinto niente?».
È l’idea del titulo, come dice lui. Il trofeo da esibire come dimostrazione, la medaglia appuntata al petto. È così che arriva all’altro filone, José. Il risultato porta dritto al confronto, al bisogno di misurazione con l’altro, alla sfida perenne con qualcuno. Una squadra, un arbitro, un allenatore avversario, un Paese: José vuole il termine di paragone. «Non è assolutamente confrontabile la mia carriera da allenatore con quella di Frank Rijkaard. Lui in tanti anni che allena non ha vinto niente, io in pochi anni ho vinto tutto». Anche con l’allenatore della Roma, Luciano Spalletti: «Io credo che abbiamo giocato contro una squadra con grandissimi giocatori. Parlo della Roma. Giocatori che avrei voluto tutti con me. Ma che alla fine si troveranno con zero titoli». L’ha fatto con il tecnico dell’Arsenal, Arsene Wenger, lo farà ancora. Gli altri che vogliono sempre qualcosa che è suo. Spesso è vero: è l’invidia mascherata e che Mou smaschera senza pietà. Tutti odiano perdere e tutti detestano perdere con lui, perché le vittorie alimentano la sua voglia di successo: «Il vincente non è chi vince, ma chi ha ancora voglia di vincere. Se ottieni qualcosa e continui a cercarla hai una mentalità vincente». In onore di una vittoria e della sconfitta altrui, José è disposto a mettersi in gioco fino alla fine. Parla, assale, cerca lo scontro. Non ha paura delle conseguenze di una dichiarazione aggressiva. Si sente accerchiato.
Vede il complotto e ricorda un po’ Foucault: crede che tutti vogliano la sua fine, teme che ci sia un disegno contro di lui, accusa, attacca, vede cose strane, sente commenti bizzarri. Il confronto è la vita, il pane, la salvezza. Ne ha bisogno, lo vuole, lo desidera: è la contrapposizione commisurante di Heidegger, la costante sfida tra se stessi e un altro, la voglia di mettersi contro qualcuno per sentirsi più forti, diversi, migliori. Per Heidegger gli uomini si trovano in soggezione con gli altri: «Non è se stesso, gli altri lo hanno svuotato del suo essere». Mourinho gioca allo specchio: vuole che gli altri si trovino in soggezione con lui per ottenere esattamente quello che Heidegger pensava: chi è in soggezione considera mai “gli altri” come “un altro” specifico: si va sul generico, si spara nel mucchio, si dà un messaggio a una persona senza volto e senza nome. Sono quelli che “ci sono qui” quotidianamente e dietro cui nascondiamo la nostra identità perduta. José ci riesce e trasforma tutto in un vantaggio: gli altri non l’attaccano mai direttamente, lui fa i nomi. Come quando, appena arrivato in Italia, non ha aspettato a parlare degli altri, di come lo giudicano, di come lo criticano: tutto in faccia, tutto in diretta, senza un solo problema, senza una sola incertezza.
Da Heidegger e poi soprattutto da Sartre, Mou ha preso anche un filo di esistenzialismo. Arriva quando dice frasi come questa: «Se avessi voluto un lavoro facile, sarei rimasto al Porto, con la coppa, una poltrona blu, Dio e dopo Dio io». Una più grossa, sempre di più. Non si lascia niente senza un ragionamento. Calcolo anche questo. Calcolo tutto. José non fa nulla senza prima averci pensato: la ricerca della soluzione momentanea presuppone le parole giuste e dopo le parole qualche fatto. Così il linguaggio è azione, diventa una performance, succede se s’arrabbia o se deve dire qualcosa di importante: «I se nel calcio non esistono». Fa parte di un disegno, di uno schema che mette l’allenatore da solo in un gruppo, comandante, monarca un po’ anarchico: guida lui, con l’idiosincrasia del comando altrui. La miscela mescola opposti filosofici che trovano una sintesi nel suo modo di essere e nel suo modo di comportarsi. Mou è un atteggiamento filosofico diverso a seconda che si parli di sé o della squadra. Così quando parla degli altri si trasforma in collettivista: prende Robespierre e il suo disegno rivoluzionario e lo aggiorna, lo stravolge, tenendo fisso il concetto base. Cioè che l’uomo, il singolo, dev’essere subordinato agli altri con i quali condivide l’avventura: fa squadra e la fa fare, difende i suoi calciatori, il suo staff.
È un po’ di hegelismo spot. «Non esistono grandi calciatori che vincono da soli. Anche il più forte di tutti si deve integrare in un gruppo e si deve piegare alle esigenze degli altri». È la piccola rivoluzione di uno che non si professa conservatore: «Non sono un rivoluzionario e non voglio rivoluzionare nulla. Sono semplicemente una persona con idee molto chiare, con una filosofia di lavoro che è un po’ come la mia filosofia di vita: essere onesto ed essere diretto e ambizioso, caratteristiche che non voglio perdere mai». È qui che scivola altrove, che va, che si fonde con altro, opposto e contrario. José è collettivo se parla degli altri, individualista per se stesso. La verità è che Mourinho è profondamente etico. Lo è anche quando sbaglia, anzi quando tutti credono che sbagli. Perché lui si comporta da immorale, esagera, eccede, talvolta fa incazzare. Tu la capisci la sua scorrettezza, capisci quando vuole provocare, quando va oltre le righe perché gli altri capiscano. Però ne resti attratto, coinvolto: è come il Dr. House, incredibilmente bastardo e così coinvolgente, fico, divertente. Tutti vogliono essere House e se non tutti vogliono essere Mourinho è perché appartiene a una squadra. E la squadra confina le passioni, le argina, le contiene, le reprime. Non si ama l’allenatore degli avversari, ovvio. Un milanista non dirà mai quanto è straordinario José: lo adora in silenzio. Così lo juventino, il romanista, il laziale. Piace perché è quello che in fondo vorrebbero essere tutti: ricco e nella sua ricchezza orgoglioso della libertà. Perché ci sono ricchi pavidi e ricchi coraggiosi e lui sta nella seconda categoria.
Dicono sia facile parlare con un materasso di nove milioni di euro sotto al sedere. Forse è vero, però è vero anche che chi guadagna poco meno di lui è altrettanto comodo e non altrettanto forte da dire quello che pensa. C’è House anche qui. Si specchiano l’uno nell’altro, protagonisti di un’era dove l’appiattimento politicamente corretto ha annientato la diversità. Loro non ci stanno. Mou non ci può stare: l’ha detto a se stesso e al mondo e una volta che l’ha detto ha deciso di farlo: siamo lì, con il dottor Gregory, nella stessa dimensione etica. Personale, strana, ribelle. Sconfina i limiti normali, immobili e immutabili: lui li accartoccia e li umilia lasciando credere di non conoscerli. Invece li conosce e lo fa apposta: li stravolge con un obiettivo preciso. Uno che dice ho vinto anche quando perde provoca un senso di fastidio oppure di ammirazione. Non lascia indifferente. Mou lo vuole, lo fa apposta, lo pensa e lo dice per provocare una reazione. È un effetto etico: con quel suo modo di fare José obbliga tutti a riflettere su quello che dice, a chiederci perché lo fa, se è giusto, sbagliato, corretto, scorretto. Il sentimento di insopportabile antipatia che crea in chi lo detesta è voluto ed è morale. Così la reazione opposta.
Mou l’ha spiegato in Inghilterra e lo spiega ancora, perché il concetto sia chiaro a tutti, o almeno a quasi tutti: «Non siete abituati a uno come me, così aperto. Uno che si comporta come ritiene giusto, che non ha paura di esprimere che cosa prova e che cosa pensa, anche se sembra scorretto. Sarebbe molto più comodo e facile per me, dire che i conti si fanno alla fine, che tutto è possibile. Così non avrei problemi. Vi direi soltanto quello che siete stati abituati a sentire sempre fino a oggi. Invece io dico che vinceremo il campionato e voi pensate che sia una commedia, una presa in giro, una mancanza di rispetto e umiltà. Ma io non cambio: se mi sarò sbagliato, me lo rinfaccerete, ma preferisco essere così. Sincero». La provocazione è personale, voluta, cercata. È scelta. Perché qui c’è l’uomo preso come singolo e non come genere: la singola esistenza di ciascun uomo, la sua, di Mou. Lei, sola unica realtà dotata di senso in un mondo che non presenta alcun ordine prestabilito. È Kierkegaard: «Il singolo è destinato alla libertà e alla scelta; il singolo è cioè la situazione in cui l’uomo deve decidere se accettare o rifiutare la grande possibilità dell’esistenza» come scrive Emanuele Severino.
Mou è il singolo, cioè l’uomo messo di fronte all’assoluta libertà del proprio destino: la sua vita è unica e irripetibile, inevitabilmente personale e propria. Lo sa José e lo dice: non lega mai se stesso ai risultati della squadra, parla al plurale, ma agisce al singolare, si prende le responsabilità delle scelte. Ha sempre ragionato così: ogni uomo è di fronte alle scelte che la vita gli pone di fronte e solo a lui spetta decidere per se stesso e per la sua vita. Il singolo è colui «che non cedette alle Termopili... egli doveva infatti impedire alle orde di attraversare quel passo: se fossero penetrati, avrebbe perduto». Mou ci mette la faccia e il corpo. È singolo tra i singoli, deciso, forte, cosciente. Quando si definì speciale lo fece per questo, per dire che non avrebbe avuto alibi, che non avrebbe mai scaricato sugli altri: lui al di là del bene e del male. Con la faccia e con i capelli oggi un po’ più grigi. «Sono pronto, mi sono fatto un nuovo taglio di capelli, pronto per la guerra».

Le Termopili sono a San Siro.

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