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Un musulmano doc che vuole mettere fine al sistema laico

Prega cinque volte al giorno e sfida le istituzioni mostrandosi sempre in pubblico con moglie e figlia rigorosamente velate

da Ankara

«Il sistema laico in Turchia è al fallimento. Noi lo vogliamo assolutamente cambiare». Lo disse, nel 1995, Abdullah Gül al quotidiano inglese Guardian. Sono passati 12 anni. L’attuale ministro degli Esteri e aspirante presidente della Repubblica continua a negare, ma il noto foglio inglese ha sempre confermato quelle parole, che la dicono lunga sulla personalità di quello che, nel Paese, è considerato il delfino di Erdogan.
La loro amicizia dura da quando cominciarono a militare nel Refah, il partito del Benessere, fondato da Necmettin Erbakan, capo indiscusso della destra islamica turca. Poi nel 2001, dopo quella che chiamarono una «conversione», fondarono insieme il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, di orientamento islamico moderato.
Laurea in Economia e master in Gran Bretagna, sembrava naturalmente avviato alla carriera diplomatica, anche per l’invidiabile conoscenza della lingua e del mondo arabo. Ed Erdogan, infatti, lo nominò ministro degli Esteri, anche per ricambiarlo di un grosso favore. Abdullah Gül, infatti, diventato primo ministro dopo le elezioni del 2002, restò in carica appena 5 mesi, giusto il tempo per fare votare un emendamento che permettesse al grande amico di prendere il suo posto.
Nato a Kayseri nel 1957, ha una moglie e una figlia velate e due figli maschi. Il temperamento mite e cordiale, il viso tondo e rassicurante e quella passione sfegatata per la squadra di calcio del Besiktas nascondono una personalità forte e controversa almeno quanto quella del premier e non lo hanno salvato da qualche sonora figuraccia, anche di un certo rilievo.
Durante il periodo della pubblicazione delle vignette contro Maometto in Danimarca, negli stessi giorni dell’omicidio di Don Andrea Santoro, Gül dichiarò che nel mondo, al posto dei sentimenti antisemiti adesso c’erano quelli anti-islamici. Parole non proprio diplomatiche, che la stampa straniera, a differenza di quella locale, si affrettò a riportare.
Il suo ufficio stampa fu messo a dura prova quando il ministro degli Esteri definì il quotidiano islamico Vakit il suo giornale preferito. Vakit ha spesso attaccato i giudici più laici dei Paese, primo fra tutti Mustafa Ozbilgin, ucciso da un avvocato fanatico nella sede del Consiglio di Stato il 17 maggio 2006 per una sentenza sul velo islamico.
Proprio sulla questione del velo, le posizioni di Gül sono note. Il 24 aprile, giorno della sua nomina a candidato dell’Akp per la Presidenza della Repubblica, quando gli chiesero se fosse lecito che una donna velata entrasse nel palazzo presidenziale, rispose che quella della moglie era una scelta personale e che tutti dovevano rispettarla. Sua figlia Kubra con il velo va dove vuole. Anche in università. Tutti i giornali turchi hanno immortalato la famiglia Gül il giorno della sua laurea. Kubra e la mamma indossavano due türban dai colori sgargianti, alla faccia della sentenza della Corte di cassazione, che ne vieta l’utilizzo nei luoghi pubblici. Lo Yök, istituzione laica che monitora l’insegnamento universitario, ha ritenuto opportuno avviare un’inchiesta ai danni dei dirigenti dell’ateneo e del ministro, che ha commentato: «Hanno voluto rovinare il giorno più bello di mia figlia».
Musulmano praticante, prega cinque volte al giorno e non vuole essere disturbato. Lo si è capito durante la campagna elettorale. Abdullah Gül si trovava sotto il portico di una moschea rivolto verso la Mecca. A un tratto si mise a urlare a un pullman che passava vicino di abbassare il volume perché interrompeva la sua preghiera.

Peccato si trattasse di un veicolo elettorale del suo partito, l’Akp, e per giunta con a bordo l’ex ministro della Giustizia, Cemil Cicek, che ha fatto cessare i messaggi di propaganda visibilmente sorpreso.

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