Politica

Da Napolitano a D’Alema il Pci applaudiva "l’eroe"

Pol Pot, la sponda comunista. Gli eredi di Botteghe Oscure non hanno mai rinnegato le dichiarazioni di allora

Aprile 1975, l’ultimo elicottero americano abbandona Saigon, la foto del marines che ripiega la ban­diera a stelle e strisce sul tetto del­l’ambasciata Usa fa il giro del mon­do, diventa il simbolo della sconfit­ta, dell’America umiliata, della grande vittoria comunista. Aprile 1975, in piazza Maggiore a Bolo­gna, capitale del potere rosso in Ita­lia, il Pci organizza una grande ma­nifestazione per celebrare la «ma­gnifica vittoria » dei compagni in In­docina. In quei giorni non solo è caduta Saigon ma con qualche giorno di anticipo a Phnom Penh, capitale della Cambogia, entrano vittoriosi dei misteriosi guerriglieri, piccoli in pigiama nero, si chiamano Khmer rossi, li guida il «compagno Pol Pot», così definito dai documenti del Pci, che invece il giornalista Etto­re Mo definirà «uno degli uomini più scellerati della storia dell’uma­nità ». In quelle settimane la Cambogia, e in forma meno oscena il Vietnam e il Laos, iniziano un periodo di oscurantismo e di terrore. Una fol­lia dell’utopia leninista marxista che, secondo le statistiche ufficiali dell’Onu, fece oltre due milioni di morti. Il Pci non si limita a celebrare la vittoria dei compagni ma rivendi­ca a pieno titolo un legame con i guerriglieri in pigiama nero. L’11 aprile del 1975, quando stava per iniziare il terrore dei Khmer, il Co­mit­ato centrale del Pci aveva già vo­tato una risoluzione a favore di quel­la che definisce «l’eroica Resisten­za del popolo cambogiano e vietna­mita ». Dell’organismo dirigente che esprime la piena solidarietà agli inquietanti leader del comuni­smo indocinese, facevano parte, ol­tre ad Enrico Berlinguer, Massimo D’Alema, Giorgio Napolitano, An­tonio Bassolino, Armando Cossut­ta. Il documento testualmente invi­ta a «...sviluppare un grande movi­mento di solidarietà e di appoggio ai combattenti. Ogni democratico, ogni comunista, sia, come sempre e più di sempre, al loro fianco». Non occorre un grande sforzo per valutare quale fu l’atteggiamen­to di fratellanza comunista che il Pci italiano ebbe nei confronti del compagno Saloth Sar, vero nome e cognome di Pol Pot, basta scorrere la collezione dell’ Unità dell’epoca per comprendere come non esistes­se alcuna remora, alcun dubbio, al­cun sospetto, su questo criminale che i fatti hanno posto al pari di Hit­ler e Stalin. Con toni di grande reto­rica Pol Pot e i Khmer rossi sono i vincitori di una battaglia del bene contro il male, coloro che hanno umiliato l’odiata America, con i suoi orpelli della libertà e della de­mocrazia. Invece, dopo poche ore l’ingresso a Phnom Penh inizia uno dei più immani genocidi del Nove­cento, due milioni di vittime, su una popolazione di meno di sei mi­lioni di abitanti. In poche ore, la ca­pitale, simbolo dell’urbanizzazio­ne occidentale, viene svuotata, i malati vengono lasciati morire ne­gli ospedali o finiti con un colpo di fucile alla nuca. Nel mirino finisco­no prima gli «evoluè», le persone che hanno una qualche forma di cultura non marxista, basta portare gli occhiali o parlare una lingua stra­niera, per essere passati per le armi. Poi tocca agli altri. Il ritardo al lavo­ro nelle campagne è punito con la fustigazione a colpi di bambù, al ter­zo ritardo si è condannati a morte. Un uomo che vuole sposare una donna inoltra domanda alla diret­trice delle donne del villaggio che gliene assegna una a sua scelta. Tiziano Terzani ammette i suoi errori e comincia a raccontare la ve­rità. I telegiornali Rai, con grande professionalità di alcuni colleghi, raccolgono le prime testimonianze degli orrori, raccontati da chi fugge in Thailandia. «I falsari della tv», ti­tola l’Unità in prima pagina, all’at­tacco dei telegiornali definiti: «esibi­zione di parzialità e di menzogna». Gli inviati dell ’Unità raccontano, invece, la gioiosa vita nel paradiso del comunismo. Si dovrà a uno stra­ordinario film, «Urla nel silenzio», diretto da Roland Joffé e vincitore di tre premi Oscar, il miglior raccon­to della macelleria cambogiana. Tutto questo è storia, consacrata dai tribunali internazionali, ma in Italia ancora non è stata scritta la storia di chi ha condiviso, almeno moralmente, le nefandezze di Pol Pot e compagni. Certo, il contesto dell’epoca, si dirà. Ma poi, perché dopo non c’è stato neanche un ge­sto, uno scampolo di autocritica? Se vogliamo quello che è accaduto per la Cambogia è più grave dei fatti di Ungheria e Cecoslovacchia.Que­sto per l’entità del genocidio e per la natura gratuitamente criminale dell’azione di Pol Pot. Quelle volte che qualcuno ha interpellato i diri­genti dell’allora Pci, i firmatari di quei documenti di sostegno, molti dei quali ancora oggi attivi in politi­ca, ha ottenuto risposte di circostan­za. La dissociazione è scontata. Nes­suna condanna aperta e meditata per aver condiviso politicamente quella follia. Del resto la misura di tutto ciò è anche nella conoscenza di quei fatti. In Italia sono stati pub­blicati solo tre o quattro libri sul ge­nocidio cambogiano.

Questa vicenda ora è consegnata alla storia ma come ci hanno inse­gnato Vico e Croce la storia è il me­tro della civiltà.

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