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Napolitano, quel ministro che punì chi indagava sui Ds

Napolitano, quel ministro 
che punì chi indagava sui Ds

«Già da ministro dell’Interno fui uomo delle istituzioni, non di parte». Parola del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Parola da prendere con le molle se è vero che quando l’inquilino del Colle sedeva giust’appunto al Viminale si rese protagonista di un’iniziativa clamorosa, stigmatizzata dal centrodestra quanto sfruttata dalla criminalità organizzata, tesa a tagliare le gambe agli scomodi reparti speciali delle forze dell’ordine (Ros dei carabinieri, Scico della Guardia di finanza, Sco della polizia) con un apposito decreto ministeriale che porta in calce la sua firma. Successe il finimondo con la direttiva che azzoppò definitivamente i reparti scelti che avevano indagato su Di Pietro e Pacini Battaglia, le coop rosse, i Ds, la Tav, che avevano arrestato Riina, che stavano puntando Provenzano e via discorrendo. Fioccarono le interrogazioni parlamentari. I vertici dei reparti vennero via via rimossi. Protestarono le rappresentanze di base. Alcuni magistrati alzarono la voce contro quel decreto che di fatto rendeva inoperativi i reparti con una scelta d’imperio mirata a togliere la centralità decisionale ai reparti delle tre forze dell’ordine attuando la «frammentazione» degli stessi, ridotti così a meri centri di analisi, raccordo informativo e supporto tecnico, senza più nessun raccordo operativo con le direzioni centrali né uno straccio di coordinamento per la lotta alla mafia, al terrorismo, alla corruzione. Lo «Scico», per dire, tornò a essere quello che era stato in passato il «Ccaico» (centro coordinamento attività investigativa sulla criminalità organizzata) il primo servizio centrale investigativo sulla criminalità organizzata che di fatto fallì perché impegnato in soli compiti di coordinamento informativo. A dimostrazione dei danni fatti dal decreto Napolitano, il comando generale della Guardia di finanza dovette prendere atto, il 4 febbraio 1999, che a seguito della pesantissima ristrutturazione l’attività di contrasto alle mafie aveva subito una «notevole diminuzione». Il capo dello Scico (contro il quale Antonio Di Pietro scrisse una lettera aperta indirizzandola al ministero delle Finanze parlando di «oscure minacce») venne sollevato dall’incarico e spedito a Torino. Idem per il colonnello e il capitano del Gico di Palermo, rimossi entrambi quand’avevano trovato la preziosissima traccia investigativa dell’«insufficienza renale»» di Bernardo Provenzano, la stessa che solo otto anni più tardi porterà all’arresto del boss.

E se attraverso una sofisticatissima interpretazione del decreto-Napolitano i carabinieri riuscirono ad aggirare in parte la tagliola ministeriale inventandosi una sorta di «dipendenza funzionale» con la casa-madre del Ros, lo Sco si ridimensionò a vantaggio delle Squadre Mobili mentre lo Scico difatto venne ammazzato dall’allora comandante generale, Rolando Mosca Moschini, che oggi vediamo (anche ai funerali) sempre un passo indietro al presidente Giorgio Napolitano quale consigliere militare. Nel 1998 il Viminale di Napolitano sciorinò numeri improbabili sulla lotta alla criminalità per tentare di arginare le polemiche. Ma la verità raccontata in imbarazzanti interpellanze fu che numerose e importanti indagini, alcune di rilevantissimo spessore, vennero abbandonate, spezzettate, diluite e disperse in più procure.

Il decreto Napolitano fu la pietra tombale sull’operatività dei reparti scelti, ma la sua promulgazione non passò sotto silenzio. L’allora superprocuratore antimafia, Pierluigi Vigna, se la prese addirittura con Massimo D’Alema che s’era permesso di parlare di potenziamento (sic!) dei reparti operativi e non di ridimensionamento: «No, non è così. Vi è stato un calo sensibilissimo nelle indagini», tuonò. Per Vigna la carenza nella lotta alla grande criminalità veniva aggravata proprio da quella circolare che indebolì il Ros e lo Scico in quanto «non potendo più contare su una direzione centralizzata» erano di fatto «legati alle iniziative delle singole procure». Sempre Vigna sostenne che la circolare ministeriale aveva addirittura violato l’articolo 371bis del codice di procedura penale poiché, come atto amministrativo, non poteva assolutamente modificare una norma di legge. Vi era un problema di legittimità grande come una casa: «Con un decreto - aggiunse - non si può cambiare una legge che ha una forza superiore a un decreto ministeriale». Napolitano riuscì nell’impresa.

E quei colleghi parlamentari già sotto inchiesta tirarono tutti un sospiro di sollievo.

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