Controcultura

Il naturalismo razionale (e proustiano) di Mattioli

Le sue superfici pittoriche sono elastiche, molli. E ci risucchiano verso misteriose profondità

Il naturalismo razionale (e proustiano) di Mattioli

Tela, materia, colore sono in Carlo Mattioli un'unica cosa, e si fanno emozione estetica. Come affrontare dunque un ritratto, come una natura morta, come un nudo, come un paesaggio? Mattioli sa che il risultato è affidato a una misteriosa congiunzione tra ciò che già sappiamo, che già conosciamo, e un'improvvisa invenzione di ciò che fino a quel momento non c'era, che non conosciamo, ma che, d'un lampo, entra in noi, si confonde con le immagini consuete. È proprio questo il mistero della piacevolezza di Mattioli; da intendere, naturalmente, nel senso più alto, che è quello che deriva dal piacere.

Pochi pittori piacciono come Mattioli, destano, come lui, immediati innamoramenti, seducono passatisti e modernisti, convincono anche gli scettici, abbattono le barriere tra conservatori e progressisti. Mattioli progredisce conservando. Il suo obbiettivo, lirico, è dipingere emozioni, entrare nella corteccia degli alberi, nei muschi, nelle terre lagunari, per sentirne la vita organica, annullando l'umana coscienza, e anche il limite della veduta. Lo ha aiutato certamente, nella città di Stendhal, la lettura di Proust, favorita dal Proust parmigiano, Attilio Bertolucci. Eccone alcuni concomitanti versi, in sintonia emotiva con Mattioli davanti a un paesaggio: «Ancora vita il tuo dolce rumore/ dopo giorni bui e muti riprende./ Porta il vento di maggio l'odore/ del fieno, il cielo immobile splende./ Gli occhi stanchi colpisce di lontano/ il rosso papavero in mezzo al tenero grano».

Il rimando pascoliano di Bertolucci equivale a un retrogusto alla Fontanesi in Mattioli, che ha però la necessità di non abbandonare la frontiera del suo tempo, con un naturalismo ammiccante all'Informale, respinto da Morandi, ma perseguito, con maggior tormento e minore spontaneità, da Ennio Morlotti e Pompilio Mandelli. Riuscire a far convivere, in un'immagine, Fontanesi, Morandi, Burri e Pollock senza confondersi con nessuno di essi, ma facendone sopravvivere intatto lo spirito: questa è la specialissima attitudine di Mattioli. Ci sono in lui il rigurgito della memoria di Fontanesi, lo stesso essenziale naturalismo di Morandi, il senso della materia, del suo splendore, della sua opacità di Burri, le grumose deflagrazioni, su grandi superfici, di Pollock. In un certo senso, in una versione meno estetizzante, Mattioli ha percorso una strada parallela a quella di Nicolas De Staël. Morto precocemente nel 1955, De Staël appartiene alla stessa generazione di Mattioli (nato nel 1914 il primo, nel 1911 il secondo). Per entrambi il problema è la definizione di un nuovo linguaggio dopo le avanguardie storiche, una ricostruzione che non sia restaurazione. È difficile sottrarsi alla sensazione di un motivo comune che unisca oltre a nature morte e paesaggi perfino i nudi dei due artisti.

Niente è più estraneo a Mattioli della pittura astratta, delle sue combinazioni geometriche, dei suoi ritmi programmati. Il segno è istinto, e sempre sulla tela deve rivivere un bosco, un campo, un corso d'acqua, o anche una macchia lontana, che può essere albero, stagno o papavero, o un'ombra, quella di un corpo o del Cristo... Più imminenti, più fisiche sono le forme degli alberi, sagome contro il cielo, e soprattutto le ginestre con il fortissimo giallo. Ma Mattioli è un artista rigorosamente razionale, e proprio perché crede al reale ha la possibilità di comprenderne le strutture e di esprimerle (tutto ciò che è reale è razionale). La sua pittura si oppone con forza a ogni casualità, appare sempre sorvegliatissima, calcolata, anche nel segno apparentemente più istintivo. Essa esprime un naturalismo razionale, più affine alla misura lenta e armoniosa di un Rothko, dai ritmi musicali, che alla nevrosi incontrollabile dell'informale, cui pure si accosta per le vibrazioni materiche della superficie. Ed è per amore della materia, per un coinvolgente sentimento della natura, che Mattioli predilige le grandi dimensioni: esse hanno una prepotente forza d'urto, chiedono la nostra immersione. Noi siamo dentro questi larghi paesaggi dall'orizzonte alto, che lasciano uno stretto margine al cielo; ed è una profonda immersione perché la superficie pittorica di Mattioli è elastica, molle, risucchia verso misteriose profondità.

Anche attraverso una sola striscia di colore sulla tela risparmiata, Mattioli sapientemente evoca amplissimi spazi, infinite pianure, orizzonti in cui si perde lo sguardo e quando la visuale è schiacciata dall'alto la profondità è verso il centro della terra, magma ribollente che splende di sé, anche senza luce. E non solo i paesaggi, ma anche le nature morte irradiano da un nucleo germinale lo spazio stesso che le circonda, e le fa vivere e respirare. Così i corpi, che nascono nella materia del colore, sono terra e collina, perché Mattioli sente la natura quasi avesse radici come un albero, o fosse immerso nell'acqua come un'alga, o si sciogliesse nella mobile argilla delle Aigues mortes, da lui sentite come una ferita dissanguante non nel corpo ma nella coscienza. Di fronte ad alcune delle sue immagini si può pensare per un attimo a Tàpies, ma le terre del catalano sono riarse e secche, la vita vi è definitivamente estinta e non rimane altro che la terra scura, appena solcata dalla traccia di un'umana presenza che si è allontanata per sempre; mentre le argille di Mattioli sono fertili, impregnate di vita d'acqua, alimentate, verdi; anche il colore vive nell'apparente monocromia: il grigio vibra, svaria, il bianco s'annera, il nero riluce e ogni verde è più verde, ogni marrone è più marrone, ogni azzurro è più azzurro.

La superficie scabra, e in continuo assestamento per i nostri occhi, come lava, invischia e cattura la luce, determinando diffuse emergenze luminose che restituiscono il senso e l'atmosfera di un momento, di un'ora, di una stagione. Così, oltre all'immagine della natura, la tela sembra tenerne anche i profumi e gli odori, impregnati nel giallo e nel verde, e catturare le vibrazioni del vento, le sfumature azzurre e violette di una notte di luna. E quanto più la pittura si fa libera, e il segno svincolato da una immediata rappresentazione mimetica, giungendo a singolari tangenze con Burri (e proprio con il Burri dei sacchi e dei cellotex, solo in apparenza più ardito di Mattioli), tanto più la natura viene restituita nella sua verità. Contrariamente a Burri, Mattioli si ferma un attimo prima dell'estetismo: resta un vero naturalista, di ceppo romantico, alla fine del lungo percorso sul quale si pongono Constable, Corot e Fontanesi. Da essi Mattioli ha imparato che la pittura è tanto più vera quanto meno dettagliata, e l'ha concepita odorosa e liquida, grassa e trasparente.

La sua mente si apre, negli anni tardi, a un cupo misticismo ispirato dal pensiero della moglie perduta. Esso si alterna all'entusiasmo per l'amatissima nipotina Anna, vita che si apre, occhi che scrutano il mondo con infinita curiosità. Anna è viva come l'estate, come una sorgente d'acqua, è il luogo di tutti i colori, della pienezza della vita. Negli altri ritratti e negli autoritratti, Mattioli mostra che la pittura si esprime anche attraverso ciò che non dice, in una reticenza e in una rarefazione non diversi da quelli espressi nella Croce di Santa Maria del Rosario. L'Autoritratto al chiaro di luna, così come i due ritratti di Rosai, sono meditazioni sulla morte, simboleggiata dalla notte e dalla riduzione dei colori al grigio e al nero. La vita resta nella lama di luce che sottolinea i tratti del volto come in un negativo fotografico. La morte avvolge la vita, ci tocca con la sparizione di chi ci è vicino, ci fascia come uno scialle: così l'ha intesa Mattioli nel dipinto in cui, dopo la morte della moglie, tiene in braccio, come purissimo segno della vita che continua, la piccola e rosea Anna in abito bianco.

Il volto mesto e segnato di Mattioli trova l'ultima consolazione nello sguardo stupito e ignaro della piccola nipote, tante volte vista nella felicità della vita e ora coinvolta nel dolore della morte. Ma il destino dell'uomo è un destino di solitudine: sola è la terra, soli gli oggetti, soli i corpi nudi in attesa di un amore che è comunque altrove, solo l'uomo in una notte senza fine alla quale guarda senza nulla capire. La notte inghiotte anche la luminosa natura. Soltanto nello sguardo dell'infanzia e nel tenerissimo abbraccio di una bambina c'è speranza.

O nella croce.

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