Controcultura

La nazione delle ottanta lingue dove la libertà è ancora un sogno

Cacciato Mengistu nel 1991, il Paese africano non è riuscito a trovare la strada della piena democrazia. E il conflitto interetnico non ha fine

Livio Caputo

L'Etiopia, il più fedele alleato dell'Occidente in Africa, il bastione della Cristianità in una regione a prevalenza musulmana, e uno dei Paesi in via di sviluppo che ricevono più aiuti internazionali, potrebbe essere sul punto di esplodere. Dopo la rivolta popolare scoppiata in agosto, con alcune centinaia di morti e la distruzione anche di aziende straniere, il 9 ottobre il regime ha proclamato la legge marziale, estendendola anche alle province dove non era accaduto nulla, e la applica con un rigore che finisce con l'aumentare il risentimento della popolazione. Due settimane fa, ha tratto in arresto Meresa Gudina, presidente del Congresso Federalista Oromo e illustre esponente dell'opposizione, sotto l'accusa di «collaborazione con organizzazioni terroristiche»: la sua colpa è di avere rivolto una richiesta di aiuto al Parlamento Ue e di avere incontrato a Bruxelles l'esponente della diaspora Berham Nega e la medaglia d'argento della maratona di Rio, Lelisa Feisa, che dopo avere denunciato con un gesto eloquente delle mani, al momento di passare il traguardo, l'abolizione della libertà nel suo Paese ha dovuto chiedere asilo politico agli Usa.

La Commissione europea ha chiesto urgentemente chiarimenti, invitando il governo a «venire incontro alle legittime richieste del popolo etiopico», ma non ha avuto risposta. Secondo il governo, dopo i disordini sono state arrestate 11.607 persone, attualmente detenute in sei campi di concentramento e accusate di «avere incitato o essere stati coinvolti in atti di violenza, promuovendo il terrore, distruggendo proprietà private ed edifici pubblici, dando asilo a criminali, uccidendo agenti dell'ordine e civili, bloccando strade, strappando e bruciando bandiere etiopiche e distribuendo illegalmente armi». Ma, secondo fonti dell'opposizione, gli arrestati sono almeno 20.000 e forse addirittura 60.000 e le prigioni 132: per quanto se ne sa, i detenuti vivono in condizioni terribili e non possono ricevere né visite di parenti né assistenza legale. Un oppositore ha definito la legge marziale «una licenza di uccidere, ferire, mutilare e arrestare». Quel che è certo è che nel Paese si è diffuso un sentimento di incertezza e di paura e che tutte le ONG che vi operano, limitate nelle loro attività, sono estremamente preoccupate.

Per quanto dalle regioni più turbolente arrivino solo notizie frammentarie, corre voce che perfino tre persone che conversano tra loro per la strada siano passibili di denuncia. Ai diplomatici che chiedono spiegazioni, viene risposto che la legge marziale serve a rassicurare gli investitori stranieri, a recuperare il pieno controllo del territorio e (con una bella dose di sfacciataggine) a «rendere più credibile la promessa di riforme». In realtà, serve anche a mettere sotto il controllo dell'autorità centrale tutte le forze di polizia del Paese, comprese quelle etniche dipendenti dai nove governi regionali.

Alle origini dei disordini c'è il fatto che l'Etiopia, nonostante la sua storia millenaria (il Cristianesimo divenne religione dell'impero fin dal 4° secolo) è come tanti altri in Africa uno Stato artificiale, nei cui confini convivono almeno quattro etnie principali che, con alterne vicende, si sono sempre combattute: gli Oromo (con il 32%, i più numerosi), gli Amhara, i Tigrini e i Somali. In un Paese grande circa tre volte l'Italia, si parlano 80 lingue diverse, ci sono una ventina di alfabeti e si seguono perfino calendari diversi. Fino a quando la supremazia degli uni o degli altri veniva conquistata con la forza delle armi, l'impero stava, bene o male, insieme. Nel secolo scorso furono gli Amhara (cui apparteneva anche Haile Selassie, l'ultimo Negus che si oppose alla conquista italiana e ritornò da trionfatore dopo la guerra sulla punta delle baionette inglesi) a dominare, tanto che la loro lingua divenne quella ufficiale dell'impero. Ma con la deposizione dell'imperatore a opera di una congiura di militari nel 1974 i contrasti, progressivamente, si acuirono. Dopo una fase di confusione, a prendere il potere fu il Derg, guidato dal colonnello Mengistu, che instaurò una spietata dittatura di stampo comunista, armata e sostenuta dall'Urss, che sterminò o costrinse all'esilio decine di migliaia di notabili.

Nel 1977, quando visitai (clandestinamente) il Paese, scoprii per esempio che più di metà dei membri del Rotary Club di Addis Abeba erano stati fucilati o erano scappati. Ma la rivoluzione provocò presto una reazione, che con il passare degli anni assunse dimensioni sempre più consistenti; a prendere la guida della resistenza furono i Tigrini, che pure essendo una piccola minoranza (6% della popolazione) abitante l'arido Nord, le fornirono nella persona di Meles Zenawi il leader di cui aveva bisogno. E nel 1991, dopo 17 anni di dittatura, la resistenza costrinse Mengistu a prendere la fuga e tradusse molti dei suoi complici davanti a un tribunale con l'accusa di genocidio. All'inizio tutto andò per il verso giusto. Zenawi formò un governo di unità nazionale con i rappresentanti di tutte le etnie. Ma già nel '92 ne uscirono gli Oromo, e l'anno dopo i popoli del Sud. Ciò nonostante nel 1995, approvata una nuova Costituzione federale, il leader tigrino vinse elezioni giudicate abbastanza libere, salvo a farsi confermare altre tre volte al potere in maniera assai meno pulita. Quando morì, il 20 agosto 2012, dopo che una sanguinosa guerra con l'Eritrea prima e poi una terribile carestia ebbero devastato il Paese, i suoi seguaci avevano ormai espulso tutti gli altri dai posti di potere e costituito uno dei tanti Stati africani a partito unico, il Fronte popolare di liberazione tigrino. Il vantaggio era che Zenawi, che aveva costruito una struttura piramidale, sapeva farlo funzionare, rilanciando l'economia e stringendo stretti rapporti con l'America.

Ciò nondimeno, l'Etiopia restava poverissima, con un reddito pro-capite di 500 dollari, masse di contadini alfabeti ed elevata mortalità infantile, mentre i cervelli migliori emigravano e la élite che si era formata intorno al capo diventava sempre più avida ed arrogante.

La successione toccò al vice-presidente Hailemariam Desalegn, uno scialbo personaggio, capo di un Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico che in teoria riuniva di nuovo tutti, ma in realtà restava sotto il controllo ferreo dei Tigrini: nel 2015 il partito vinse tutti i seggi in Parlamento, rafforzando così il carattere dittatoriale del regime ma alimentando sia l'opposizione interna, sia quella della diaspora e soprattutto preparando il terreno alle rivolte che hanno portato alla situazione attuale. I rivoltosi, in maggioranza giovani privi di una struttura di comando, protestavano contro la vessatoria confisca delle terre, il mancato rispetto dei diritti umani e reclamavano una più equa distribuzione delle risorse generate da un aumento del Pil superiore al 10% annuo. Queste non sono poche: l'Etiopia è il maggiore esportatore mondiale di caffè, sta costruendo sul Nilo la più grande centrale idroelettrica del mondo, sta sviluppando una pregiata floricultura, dispone nelle regioni periferiche di risorse minerarie e petrolifere non sfruttate. Ma la nomenklatura ritiene che sia necessario mantenere (come è avvenuto a suo tempo per le cosiddette Tigri asiatiche) il pugno di ferro fino a quando il processo di riforma economica sia stato completato.

La domanda è fino a quando il regime che secondo gli oppositori sta perdendo ogni autorità potrà resistere. Secondo la Costituzione, ciascuna delle nove regioni in cui l'Etiopia è divisa ha il diritto di secessione, ed è possibile che gli Oromo, che si considerano i più oppressi, cerchino di esercitarlo. Nella diaspora si fanno previsioni catastrofiche: «L'Etiopia sta scivolando verso un conflitto etnico simile a quello che ha lacerato tanti Paesi vicini».

Sarebbe una catastrofe non solo per un popolo che ha già molto sofferto, ma per tutta l'Africa e per tutto l'Occidente per cui questo antico Paese l'unico rimasto sempre indipendente salvo la brevissima parentesi della conquista italiana - è da un quarto di secolo il partner più affidabile della regione.

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