Abbonati a ilGiornale PDF Premium
potrai consultarlo su PC e su iPad:
25 euro per il mensile
120 euro per il semestrale
175 euro per l'annuale
«Nel mio Dna il senso atavico del pudore e del ridicolo»
Giancarlo Porcu, del «Maestrale», spiega i motivi che hanno condotto al boom degli scrittori isolani
Giancarlo Porcu, del «Maestrale», spiega i motivi che hanno condotto al boom degli scrittori isolani
Sardo, narratore, contemporaneo: finché i tre attributi che lo definiscono restano separati, con Salvatore Niffoi, caso letterario del momento con il suo La leggenda di Redenta Tiria (Adelphi), ci si intende a meraviglia. Ma se si uniscono e diventano una categoria, le cose cambiano: «Mi dà molto fastidio essere classificato. Mi dà fastidio prima di tutto come persona. Tutti i vestiti mi stanno stretti. Anche perché sono di taglia forte».
La popolarità ha cambiato la sua vita?
«Vivo umilmente questo momento, perché ho altro nella vita oltre alla scrittura, che è la mia dolce malattia. Giro poco, faccio poche presentazioni, lultima, quasi unica, a Cagliari, per ringraziare i lettori e i librai, laltro giorno. Un momento affettuoso. Ma poi basta. Torno a casa, a scuola, mi piace la gente normale. Sono un elogio vivente alla lentezza e alla normalità. I giornalisti sardi dicono che sono un po severo, orso. Non sono insicuro, ma non mi piace apparire. Sembro complicato? Ma Bernhard diceva che i complicati non sono così complicati come sembrano. E lo stesso vale per i semplici».
E proprio DOrrico si è invaghito di lei. Questa è una condanna allapparire...
«I segni viaggiano in modo misterioso, ma io sono un fatalista e ci credo. Se è accaduto, avrà un significato. Voi giornalisti siete come i poliziotti dei telefilm americani: tutto quello che dirò, verrà usato contro di me. Non voglio inflazionarmi e dopo questa non so se rilascerò altre interviste. Conservo nel Dna un atavico senso del pudore e del ridicolo e preferisco continuare a parlare poco e scrivere tanto. Sono un umile confessore dei malevadaos, come il mio antenato scrittore Cambosu. La normalità mi consente ritmi di vita sostenibili, la scrittura rimane un atto di sfida e di amore verso la mia terra, un ricordo per la mia famiglia».
Sente di appartenere alla famiglia dei nuovi narratori sardi?
«Ho tre grandi famiglie: la mia, la scuola e quella di Adelphi. Letterariamente preferisco essere un anarchico vagabondo che scrive quello che gli pare senza cliché. Tratto con tutti, ma sono una voce fuori dal coro. E soprattutto non mi sento uno scrittore di genere. Non sono un cane da trogolo».
E al di là dei nuovi scrittori, con chi sente affinità elettive?
«Io ho un carissimo amico e diciamo anche maestro, mai superato, che viaggia sui novanta e ormai non si muove più: Francesco Masala. Quelli dalle labbra bianche lo uso come libro di testo a scuola. È un grande, terribile, potentissimo scrittore, cui hanno fatto un disonore presentando quel film, Sos laribiancos, di Piero Livi, qualche anno fa, tratto dal suo libro. Molto sconosciuto, molto scomodo, mai strumentalizzato e quindi dimenticato. Io sono il suo alter ego e lui il mio. Anche se non voglio considerarmi lerede di nessuno».
Ma oltre a Masala chi è il più grande scrittore isolano contemporaneo?
«. Da lui sì che ho imparato molto, mi creda».
La popolarità ha cambiato la sua vita?
«Vivo umilmente questo momento, perché ho altro nella vita oltre alla scrittura, che è la mia dolce malattia. Giro poco, faccio poche presentazioni, lultima, quasi unica, a Cagliari, per ringraziare i lettori e i librai, laltro giorno. Un momento affettuoso. Ma poi basta. Torno a casa, a scuola, mi piace la gente normale. Sono un elogio vivente alla lentezza e alla normalità. I giornalisti sardi dicono che sono un po severo, orso. Non sono insicuro, ma non mi piace apparire. Sembro complicato? Ma Bernhard diceva che i complicati non sono così complicati come sembrano. E lo stesso vale per i semplici».
E proprio DOrrico si è invaghito di lei. Questa è una condanna allapparire...
«I segni viaggiano in modo misterioso, ma io sono un fatalista e ci credo. Se è accaduto, avrà un significato. Voi giornalisti siete come i poliziotti dei telefilm americani: tutto quello che dirò, verrà usato contro di me. Non voglio inflazionarmi e dopo questa non so se rilascerò altre interviste. Conservo nel Dna un atavico senso del pudore e del ridicolo e preferisco continuare a parlare poco e scrivere tanto. Sono un umile confessore dei malevadaos, come il mio antenato scrittore Cambosu. La normalità mi consente ritmi di vita sostenibili, la scrittura rimane un atto di sfida e di amore verso la mia terra, un ricordo per la mia famiglia».
Sente di appartenere alla famiglia dei nuovi narratori sardi?
«Ho tre grandi famiglie: la mia, la scuola e quella di Adelphi. Letterariamente preferisco essere un anarchico vagabondo che scrive quello che gli pare senza cliché. Tratto con tutti, ma sono una voce fuori dal coro. E soprattutto non mi sento uno scrittore di genere. Non sono un cane da trogolo».
E al di là dei nuovi scrittori, con chi sente affinità elettive?
«Io ho un carissimo amico e diciamo anche maestro, mai superato, che viaggia sui novanta e ormai non si muove più: Francesco Masala. Quelli dalle labbra bianche lo uso come libro di testo a scuola. È un grande, terribile, potentissimo scrittore, cui hanno fatto un disonore presentando quel film, Sos laribiancos, di Piero Livi, qualche anno fa, tratto dal suo libro. Molto sconosciuto, molto scomodo, mai strumentalizzato e quindi dimenticato. Io sono il suo alter ego e lui il mio. Anche se non voglio considerarmi lerede di nessuno».
Ma oltre a Masala chi è il più grande scrittore isolano contemporaneo?
«. Da lui sì che ho imparato molto, mi creda».
Condividi:
Commenti: