Nel Paese dell’impunità dove non paga più nessuno

Altro che la «tolleranza zero» invocata a scoppio ritardato dal ministro dell’Interno Giuliano Amato. La certezza dell’impunità è talmente radicata, che perfino il civilissimo articolo 27 della nostra Costituzione non fa più testo. È l’articolo che precisa, fra altre e importanti cose, che le pene «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ormai quel «trattamento contrario al senso dell’umanità» può configurarsi nell’assoluta mancanza di punizione nei confronti di chi commette un reato, per esempio l’ubriaco di turno che al volante dell’auto uccide qualcuno, scappa e, se scoperto, non finisce dritto in prigione. Un’omissione legislativa che finisce per diventare disumana, appunto, nei confronti dei familiari dell’ucciso. Oltre che del più elementare buonsenso, secondo il quale chi sbaglia, deve pagare. Eppure, per lo «sbaglio» più grave di tutti, perché purtroppo incorreggibile - cioè l’omicidio - non paga più nessuno in proporzione a quanto di irreparabile abbia commesso.
Si è rovesciato a tal punto il significato della giustizia nel nostro ordinamento, che oggi bisogna «rieducare» non già il condannato, ma i parenti della vittima del delitto. Rieducarli, nel senso di aiutarli pietosamente a lenire l’ulteriore sofferenza che inevitabilmente vivranno, nel constatare la disuguaglianza di fatto e di diritto fra la libertà concessa all’autore dell’assassinio stradale e la condanna mite che un giorno lontano forse subirà, in confronto alla perdita del loro familiare, amico o conoscente per mano del «condonato» in anticipo e con generosità.
È una lotta ormai impari tra il sanzionare con rigore un comportamento inaudito nella percezione dei più - ma non nelle pene e nelle procedure dei nostri codici - e il subire anche la beffa oltre all’inconsolabile dolore. Per questo evocare la cura intransigente che l’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, volle e seppe applicare contro il dilagare dell’illegalità è semplicemente ridicolo, se prima non si modificano i codici in modo radicale. È demagogia allo stato puro, immaginare di poter fare la faccia feroce con chi sale sull’autobus senza biglietto, nel momento in cui un ubriaco che guida può rifiutarsi di sottoporsi al test sull’alcol, rischiando, al massimo, un buffetto sulla guancia.
Il problema italiano non è la quantità dei reati commessi in un anno né la loro gravità, che nel complesso si mantengono più bassi di altri Paesi, e in particolare della patria americana della «legge e ordine». Il problema è il nulla che rischia chi delinque, a qualunque grado di delinquenza: dalla spicciola illegalità quotidiana (il pitbull portato a spasso senza museruola e talvolta perfino senza guinzaglio) ai killer di Duisburg. Dal guidatore col telefonino in mano ai colpevoli degli incendi boschivi: anch’essi presi - se presi! - e «indagati», mica «arrestati». Non le scarcerazioni facili ma le incarcerazioni difficili sono l’autentica emergenza di un sistema che ha perduto il senso della punizione, cioè che non applica più il principio della responsabilità. Invece che blaterare di impossibili tolleranze zero, s’insegni agli studenti ad alzarsi in piedi quando entra l’insegnante in classe. Il rispetto degli altri, e di sé, è la prima regola per cambiare le regole senza efficacia, che stanno devastando la civiltà e il civismo del nostro Paese.
f.

guiglia@tiscali.it

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