Politica

Nel passato di Lapo anche uno sciopero da tuta blu della Piaggio

Il giovane Elkann lavorava in incognito a una linea di montaggio. "Ho sempre amato costuire i prodotti". Ma l'esperienza durò poco

Non siamo certi se la notizia di una tale e inattesa colleganza potrà migliorare la continuità del sonno di chi lavora e spera di lavorare ancora a lungo a Pomigliano d’Arco o in qualsiasi altra fabbrica in lotta. Ma in mancanza d’altro, questa rimane pur sempre una notizia: Lapo Elkann, estroso, disinibito e sgrammaticato nipote dell’Avvocato, ha fatto l’operaio. Non solo, ha addirittura scioperato. Breve escursione giovanile, la sua, roba da diciottenni della dinastia. Un «veni, vidi e sudai» ovviamente a termine, da raccontare un giorno agli amici. Poi via di nuovo in vita. Da Agnelli, se non proprio da leoni: tra St. Moritz e il Cap (inteso come quello d’Antibes, ça va sans dire), tra Gstaad e Martha’s Vineyard.
La rivelazione di questo passato con la tuta blu, in incognito, a una linea di montaggio della Piaggio è contenuta in un’intervista concessa dal biondo e riccioluto rampollo torinese al sito internet www.simonaventura.tv. Domande e risposte «fondamentali», imperdibili. Del tipo: «Il sogno di quando ero bambino? Creare, vedere le cose che avevo in testa realizzarsi. Mi è sempre piaciuto costruire prodotti», si racconta Lapo cercando forse di motivare quell’antica esperienza di fabbrica. Rifiutando perdipiù, quasi sdegnato, certe etichette «leggere» cucitegli addosso. «Non sono né un uomo di moda, né un uomo che ama la moda», sottolinea. «Sono un uomo di stile e che ama lavorare sullo stile», aggiunge e puntualizza a modo suo, ovvero senza chiarire un granché. Ma si capisce almeno che all’argomento ci tiene. «Quando mi definiscono un uomo di moda mi arrabbio», prosegue come un fiume in piena, aggiungendo il particolare toccante, quasi deamicisiano: «Per avere il motorino ho dovuto vendere i vestiti a scuola».
Non sappiamo se nemmeno quest’ultima confessione potrà valergli, da sola, una solidarietà operaia e proletaria. Ma forse è proprio sulla politica che Lapo dà il meglio. Interrogato sulle proprie tendenze in materia, lui si fa ecumenico, nel senso di non dover dispiacere a nessuno. «Sono per un Paese sempre migliore. Sono per il progresso», assicura in modo assolutamente bi-partisan. Affermazione che non farebbe una piega se poi lui non volesse aggiungere di suo, cercando di chiarire e diventando addirittura tri-partisan, che «se il progresso è di sinistra, ben venga la sinistra; se è di centro ben venga il centro; se è di destra ben venga la destra». Facendo quindi un bel frullato, in una frase sola, di Bersani, Casini e Berlusconi. Rafforzandoci in quel dubbio che da tempo ci arrovella: il ragazzo c’è o ci fa? Perché cose così, lasciate cadere con nonchalance, apparentemente banali eppure tali da diventare titolone sui giornali il giorno dopo - chi si dimentica «La festa è finita» di suo nonno? - se le poteva permettere solo l’Avvocato.
Lapo parla però poi con toccante sincerità dei suoi cugini perduti. Ricordando di Edoardo «la sensibilità oltre misura» e di Giovannino «il senso del dovere e la bontà d’animo». Racconta anche, sminuendola, la sua fama di dongiovanni. Ribadisce la sua ben nota dimensione di gran tifoso del calcio. E ammette di essere un privilegiato che ambirebbe però in Italia a una maggiore meritocrazia. Nel settore pubblico, si lamenta, «quasi nessuno è di spessore internazionale. Se uno deve vendere un Paese deve almeno parlare inglese». Pienamente d’accordo.

Cominciasse però lui dalla base: ovvero dall’Italiano.

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