Ha compiuto 90 anni il decano dei poeti italiani che contano. Milanese trapiantato a Roma dal dopoguerra, Nelo Risi dimostra per tempo una felice versatilità che, accanto alla pratica della poesia, lo spinge a cimentarsi come documentarista e quindi nella regìa cinematografica: non continuativamente come il fratello Dino, ma pur sempre con pellicole originali e problematiche (Diario di una schizofrenica, 1968; Ondata di calore, 1970; Una stagione allinferno, 1971; Storia della colonna infame, 1973).
Gli anni di questi film sono caratterizzanti anche sul piano poetico: allora emerge fra i «giovani maestri» della generazione di Zanzotto e Pasolini. Qualcuno vede nella sua asciuttezza epigrammatica il segno di una tradizione formale e psicologica «lombarda», ossia poco incline al patetico e semmai densa di energiche implicazioni morali. Raccolte quali Di certe cose (1970) e Amica mia nemica (1976) rafforzano le doti emerse in Polso teso (1956) e Pensieri elementari (1961); dopo di che vengono I fabbricanti del «bello», «ritratti» di esistenze dedite appunto alla ricerca della Bellezza; e poi libri come Le risonanze o Mutazioni, in cui Risi interpreta al riparo da ogni preconcetto il trasformarsi, se non delle essenze, delle apparenze. Antologizzatosi nel 94 in Il mondo in una mano e ricapitolando più che un cinquantennio di versi nell«Oscar» Mondadori del 2006, cui estende il titolo Di certe cose, Risi non ha smesso di parlarci in quella sua lingua irrituale e per nulla cerimoniosa, fino a Né il giorno né lora (2008).
La nostra poesia, almeno quella dellultimo secolo, annovera molti autori polemici ma pochi, in verità, politici. Tra questi includerei senza dubbio Risi. Quel poeta che da giovane scriveva: «Ha fatto il suo tempo lassioma/ che la tortura degrada il boia -/ la tortura degrada la vittima innocente.// I boia non saranno puniti mai abbastanza;/ cè da sperare solo che il figlio del boia/ sia tanto innocente da meritare la tortura».
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