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Nessuno ha capito quant'è pericoloso Tonino

Nessuno ha capito quant'è pericoloso Tonino

Antonio Di Pietro fa sul serio e sarebbe ora che destra e sinistra capissero bene che cosa sta facendo, dove punta, a spese di chi, quanto è pericoloso. Di Pietro non è una variabile eternamente indipendente, i voti non gli crollano addosso solo per cedimento strutturale altrui o per fatalità antipolitiche legate a processi più ampi: non è un soggetto passivo, Di Pietro, è uno che si alza alle cinque del mattino dai tempi in cui mungeva le mucche e che ora sta mungendo altrove. I lettori di questo giornale sono informati più di altri circa le centinaia di cialtronate, incoerenze, familismi e demagogie da strapazzo che il nostro succhia e sparge all'apparenza senza un senso: ma si saranno pur chiesti per quale ragione la somma di ciò alla fine è un otto per cento alle Europee. Di Pietro era sparito per qualche giorno per riassettarsi in attesa delle sue venture trasformazioni settembrine e dopo il successo del 7 giugno, altro dato che tutti avevano previsto da almeno un anno e avevano vissuto come il moto dei pianeti. A dispetto di ogni tentazione, il gossip politico non era roba sua: Di Pietro sa che a larga parte degli elettori a cui punta non importa nulla degli scandali sessuali, non spostano voti. Al suo conservatorismo naturale, al di là delle pagliacciate parlamentari di ieri, importa zero anche di gridare alle «leggi razziali» come stanno facendo le truppe di Micromega: il tema è tra i pochi sul quale Tonino una coerenza l’ha mantenuta, nel 2001 propose che la clandestinità costituisse reato (sino a tre anni di carcere per direttissima) ed era favorevole anche alla schedatura dei rom. Si oppose anche al voto degli immigrati alle primarie dell'Unione. La legge Turco-Napolitano a suo dire era «troppo permissiva», perché il rimpatrio doveva aver luogo entro ventiquattr’ore. Si potrebbe riempire questa pagina citando date e luoghi in cui si espresse chiaramente, a partire da quando scrisse che certe bande di clandestini «meriterebbero non la galera, ma il taglio degli attributi». L’assalto al giudice costituzionale è già molto più funzionale al suo disegno, che è quello di rendere permanente ogni conflitto istituzionale tra magistratura e politica impersonando questo contrasto ed ergendosi a presidio di questa democrazia imperfetta e disinformata, plagiata da Berlusconi, corrotta da tutto ciò che impedisce al corpo elettorale di non continuare a sbagliarsi. Per questo soffia su ogni fuoco e cerca di rendere permanente una crisi che solo un grande gendarme potrebbe riordinare. Ma queste sono masturbazioni mentali, se non c’è la sostanza. Quella in compenso è in due ricerche della Ipso e della Ipr marketing, e dice questo: il 30 per cento degli italiani approvò il Di Pietro spaccatutto del luglio 2008 a Piazza Navona, una «prateria immensa» come la definisce il suo intellettuale di riferimento Pino Pisicchio; prima di giugno la popolarità di Di Pietro era al 48 per cento contro un 50 di Berlusconi e un 30 di Veltroni; i flussi di entrata del consenso già prima di giugno riguardavano circa un 50 per cento dei voti smembrati dal Partito democratico, il 20 per cento dalla Lega, quasi il 18 dall’Udc, non più del 14 per cento dalla sinistra antagonista. Secondo la Ipr, solo una percentuale oscillante tra il 5 e il 10 per cento percepisce la collocazione dell’Italia dei Valori come propriamente a sinistra; da un 15 a un 25 per cento invece la immagina nel centrosinistra, mentre nel centrodestra la immagina un arco tra il 10 e il 15 per cento; solo un 5 per cento, infine, la immagina a destra. Non fosse chiaro, Di Pietro punta al centro. L’Italia dei Valori è un partito di centro la cui espansione elettorale nell’area moderata è stata valutata sino al 30 per cento, questo prima che raddoppiasse o quadruplicasse i voti alle Europee; prima cioè di un eventuale effetto trascinamento, prima che un neo conformismo possa farlo diventare, come fu, volano di se stesso. Il centrosinistra Di Pietro lo sta già divorando a porzioni da camionista, ma punta anche a voi che leggete, amici del Giornale: perché già lo sosteneste. È stato il centro del Paese che gli ha consentito di fare Mani pulite e che poi si è stancato e l’ha spinto a dimettersi; solo l’eterno «centro moderato» in Italia, permette paradossalmente di fare la rivoluzione.

Parola grossa? Lui ne ha già fatta una.

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