Controcultura

"Prima nessuno mi leggeva, ora faccio 6 film alla volta"

È lo sceneggiatore più ricercato del cinema italiano: "Eppure iniziai come comparsa a Cinecittà..."

"Prima nessuno mi leggeva, ora faccio 6 film alla volta"

«Il gas aperto?». «No signora, ho chiesto se c'era un cast aperto». Nicola Guaglianone, lo sceneggiatore oggi più richiesto al cinema (sei film in preparazione) e in tv (Suburra e una nuova serie), ha iniziato così. Chiamando tutte le produzioni di Roma per cercare un lavoro su un set cinematografico. Il giorno in cui sbagliò numero, rise tantissimo con la signora che non capiva la domanda. Una risata improvvisa che ancora oggi disegna e allunga il volto di questo spilungone quarantaquattrenne, con gli occhi che si arricciano sulla crapa pelada e la barba che s'ammorbidisce. E che oggi, davanti a una centrifuga disintossicante (ah sì è ipocondriaco e molto ansioso), racconta la storia del film che gli ha cambiato la vita, Lo chiamavano Jeeg Robot, che ha aperto la strada a Indivisibili di Edoardo De Angelis e al grande successo di L'ora legale con Ficarra e Picone.

Intanto mi racconta la sua formazione?

«Sono nato alla Magliana, cresciuto a Villa Bonelli e ho studiato giurisprudenza per via della tradizione della mia famiglia calabrese dal lato paterno. A un certo punto mi è venuta la fissa del cinema e ho mollato».

I suoi genitori come l'hanno presa?

«Non bene, anche perché è coinciso con un difficile momento economico. Mi sono praticamente trasferito a Cinecittà dove ho fatto la comparsa e ho conosciuto personaggi pasoliniani, quelli che festeggiano i 40 anni di cinema, sì ma da comparsa, quell'altro che dopo essere stato sul set di un horror di Fulci viene fermato dalla polizia sul Grande Raccordo Anulare tutto insanguinato... In sartoria poi mi chiudevo a leggere le sceneggiature».

E ha capito come si scrivono?

«Quello l'ho imparato da Leo Benvenuti e poi da Claudio Caligari che mi ha insegnato a non giudicare mai i personaggi. Abbiamo scritto insieme un soggetto su Daniela Rocca, la miss Catania protagonista di Divorzio all'italiana finita in una casa di cura per malattie mentali. Mi diceva sempre rivediamoci Adele H. perché sono le donne che si rovinano la vita per l'amore».

La prima soddisfazione professionale?

«L'assegno da cinque milioni di lire per la mia prima sceneggiatura. Mi sono messo a piangere e ho chiamato subito mio padre. Era quello il lavoro che volevo fare».

La gavetta però è stata lunghissima.

«Scrivevo soggetti e ricevevo mille promesse, se va in porto ti paghiamo. Poi rincontravo quello stesso produttore seduto in un bar chino su un gratta e vinci. Alla fine mi sono messo a fare il dialoghista per Endemol».

E poi è arrivato Lo chiamavano Jeeg Robot diretto da Gabriele Mainetti.

«Quella sceneggiatura è stata sul tavolo di tutti i produttori italiani, nessuno la voleva fare. Ma io ero sicuro che il film avrebbe lasciato il segno. Perché avevamo pensato a qualcosa di diverso da quel cinema che ci annoia. Al primo montaggio ho abbracciato Gabriele in lacrime. Tutto stava andando bene ma purtroppo, un mese prima dell'uscita, mio padre ha avuto un infarto ed è morto».

Che cosa non funziona nella produzione dei film? Ora c'è una nuova legge sul cinema...

«Fosse per me toglierei tutti i finanziamenti pubblici lasciando solo il sostegno alle opere prime e mettendo i privati in grado di investire veramente nel cinema. Sono stati finanziati film con sceneggiature senza né capo né coda che hanno allontanato il pubblico».

Ha scritto il nuovo film di Carlo Verdone, Benedetta follia.

«Lui è un grande maestro, di umiltà e di curiosità. Si sorprende ancora del suo successo, come quando gli ripetevo a memoria le battute dei suoi film. Non si è accorto che sono riuscito a infilarne una di Borotalco».

Mentre in Lui è tornato di Luca Miniero fa tornare Mussolini al giorno d'oggi.

«Prenderebbe di nuovo il potere. Lo si vede bene nel film quando Mussolini, interpretato da Popolizio, va alla trasmissione di Cattelan su Sky, tutti si fanno i selfie con lui. È un film sul superpotere di un dittatore, ossia il consenso».

La befana vien di notte di Michele Soavi che film è?

«È un teen movie con elementi fantasy. La befana è Paola Cortellesi. L'ho scritto pensando ai film natalizi che mi piace guardare in tv con la cioccolata calda nella tazza e il plaid sulle gambe».

E Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno?

«È Ritorno al futuro che incontra Romanzo criminale, prendo due universi e li unisco. Un po' come quelli dei due protagonisti di In viaggio con Adele di Alessandro Capitani con Sara Serraiocco e in cui finalmente lavoro con Alessandro Haber, il mio secondo padre».

Last but not least c'è Freaks Out, il nuovo e attesissimo film di Mainetti. Fortunatamente non è il seguito di Jeeg Robot...

«A Gabriele ho portato sei soggetti. Ci siamo detti qual è il più difficile?. Per me è la storia più bella che abbia mai scritto».

Le piace più il cinema o la tv?

«Mi annoio facilmente, per questo produco tanti soggetti. Quindi non è che adesso scrivo io tutti i film. È che ora gli stessi produttori che prima non li leggevano dicono che sono geniali. Comunque per tornare alla tv, le serie ti fanno stare con gli stessi personaggi per anni. Ma a me piace cambiare. Così non farò la seconda stagione di Suburra, ma con Menotti ho scritto il pilota di una nuova serie per Wildside che consegniamo proprio oggi. Utilizziamo il crime per raccontare la psicologia dei personaggi».

Roma è ancora fonte di ispirazione?

«Come si fa a non amare Roma? Ci sono quelli che dicono che è peggiorata, ma in realtà è sempre stata così. Abbiamo il sole e poi passa tutto. Anche se mi fa ridere quando tutti difendono i cinema che chiudono. La cultura va protetta alla base, nelle scuole, altrimenti diventa un vezzo di chi ha la giacca di velluto marrone e va in vacanza a Capalbio. In nome della cultura vengono occupati i cinema. Tanto che a quelli sgomberati a piazza Indipendenza volevo dire: occupate un cinema, così non vi caccia nessuno. Ma quando la tua storica vineria abbassa la saracinesca, tutti zitti. Però io lì negli anni '90 andavo con Piero Natoli, incontravo Gregory Corso, a via del Fico c'era Victor Cavallo.

Il bar Perù l'hanno comprato i cinesi, questo mi addolora».

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