Cultura e Spettacoli

NICK LAIRD Dall’Ulster alla City con furore

Scrittore poliedrico e marito di Zadie Smith in «La banda delle casse da morto» adatta la sua vena poetica al ritmo di un’indagine tra killer e pinte di birra

NICK LAIRD Dall’Ulster alla City con furore

Uno che, almeno a parole, sa baciare una ragazza come si accende una sigaretta - le mani incurvate a conca «nello spazio perfetto tra la guancia e l’orecchio», la testa inclinata a lato per raccogliere, a fior di labbra, la prima boccata di fumo - doveva come minimo attizzare le fantasie di Zadie Smith. E, infatti, conquistata, la bella scrittrice anglo giamaicana l’ha sposato tre anni fa. Ma il modo irresistibile in cui Nick Laird sa usare le parole - per porgere un bacio, sfilare «teatralmente una Regal dal pacchetto con un dito», sfumare la tensione di un confronto a muso duro nella spuma ispessita su una pinta di Guinness: «aspettavano sempre qualche istante che la birra si posasse... Poi però bere il primo sorso era come tagliare una torta nuziale» - seduce e conquista chiunque al primo assaggio. E non è tutto fumo, tutta schiuma, tutto teatro l’effetto specialissimo organizzato da un autore che, letteralmente, con le parole, le perle nere, e i boccali di birra scura ci va a nozze. La torta servita con il suo primo romanzo è gustosa, golosa, sostanziosa. Pieno di trovate, infarcito di azione, affollato di personaggi da antologia o da galleria, Utterly Monkey (tradotto come La banda delle casse da morto da Federica Aceto per Minimum Fax, 355 pagg. 14 euro) gratifica la fame voracissima dei divoratori del genere, la sete inestinguibile degli alcolisti dello spirito, inteso come sense of humour.
Possibile? Possibile. E adesso non si venga a dire che si è perso l’appetito a sapere che l’irlandese - nordirlandese: nato in una cittadina dell’Ulster, Cookstown, 27 anni fa - ha esordito in letteratura da poeta. Non vuol certo dire malinconie, sospiri e attenzione ombelicale sulla forma a scapito di fluidità del racconto. Il quale, tra l’altro, rinuncia per forza di cose, per forza di prosa, alle rime, non ai ritmi indiavolati. Anzi, interrogato sulla vena lirica - vistosissima in una storiaccia di gangster e malloppi rubati, pupe rapite, ragazzate madornali e bombe innescate nel centro affaristico di Londra -, mister Laird tiene a dire di non andare troppo per il sottile con le distinzioni. Dovendo vedersi appiccicato addosso un fastidioso cartellino, non ci vorrebbe leggere stampato «narratore» né «poeta». «Scrittore» invece, suggerisce, «tanto più che scrivo anche recensioni, critiche, saggi, articoli di giornale, script televisivi e, ultimamente, con mia moglie, partiture e canzoni per un musical sulla vita di Franz Kafka». Meglio ancora: «lettore», aggiunge. «Quale deve essere chiunque stia per prendere la penna e mettersi all’opera». Chi lavora sui libri incominci col leggerli, insomma, «a tutto campo e in profondità», racconta di sé uno che, muovendosi sulla carta come un esploratore sul campo ebbe «a sedici anni le prime folgoranti rivelazioni. Addentrandomi nei versi di Death of a Naturalist di Seamus Heaney o nelle pagine romanzesche di The Great Gatsby. Ne fui travolto come da una raffica di vento». Volendo restare su titoli e targhette, nel suo certificato di laurea come sulla porta del suo studio di Londra, appariva quello di «Avvocato». Conseguito a Cambridge ed esibito in un quinquennio di impeccabile esercizio professionale. Stando però alle considerazioni del suo eroe, Danny Williams, protagonista del romanzo e alter ego da fiction cui ha regalato molti dei suoi tratti e trascorsi - irlandese di nascita, londinese per professione, nella City esercita da bravo leguleio negli studi prestigiosi di Monks & Turner ma il suo cuore batte per le pagine di Francis Scott Fitzgerald, per le rincorse trafelate in cui lo trascina un vecchio compagno di scuola e di bevute, per gli occhioni a mandorla e la pelle di mogano di una stagista bona, «pubblicamente bella», e smaccatamente somigliante a qualcheduna -, quello legale non era davvero il mestiere per lui. Pare un altro pianeta, un mondo alieno. Un universo popolato di mostri mitologici: strane creature metà uomo e metà scrivania, occupate a combattere per cause che si preferirebbe perdere.
Sarà per questo che il ligio, insospettabile Danny, con un colpo di testa manda a monte l’acquisto di un’impresa che sarebbe costato il licenziamento di quattromila impiegati di Belfast. Salvo poi, con un colpo di scena che ripaga la mossa costatagli, come non detto, il posto di lavoro, sventa eroicamente l’attentato di un terrorista alla Banca centrale d’Inghilterra. Alla fine il lettore di Laird comincia a immaginarsi che tutta l’invenzione del romanzo sia una pensata per vendicare l’uscita di scena dagli ambienti forensi. Non è così. Niente riscatti né rivalse. A metà tempo, rientrato a Londra dalla lunga vacanza italiana - attualmente, e almeno fino a Natale, l’autore vive a Roma con signora, intento a comporre songs kafkiani e a imparare l’italiano da fumetti, romanzi per ragazzi e graphic novels - Nick presterà la metà più mitologica di sé a servizi di giuridica consulenza. Un lavoro tutto sommato non così alienante se, dice «sia scrivere sia fare avvocato dipende dall’uso delle parole. C’è anzi tutta una destrezza pratica da esercitare per il foro e trasferire scrivendo al tavolo di lavoro. Studiare il caso, gestire il gioco delle parti, capire le ragioni della controparte, raccogliere informazioni, escogitare argomenti persuasivi...». Siamo persuasi, e non dalla retorica delle strategie difensive, anche del fatto che la dedica «Ai Laird», esposta in epigrafe sul frontespizio del suo libro non sia un appello, né una malcelata protesta contro chi - di fatto tutta la stampa anglosassone - si ostina a chiamare il geniale debuttante irlandese «Mr Zadie Smith». Tenendolo malauguratamente nell'ombra scura della fulgida bestesellerista, sua moglie.
Non se lo merita. E, non bastasse la sua identità di autore strepitosamente originale, l’invocazione in exergo al proprio nome di famiglia, apposta in cima a un libro stampato a Londra da Fourth Estate e trasposta adesso nella lingua del beneamato Belpaese, vale come un documento di provenienza. Denominazione d’origine che lo lascia riconoscere come un bel figlio d’Irlanda. «Ho sempre un passaporto irlandese», dice. «Dalla Repubblica d’Irlanda, dal Cork e dal Donegal, provengono le famiglie di entrambi i miei genitori. Certo non è facile in Ulster far parte della chiesa protestante. In tutti i casi io sento, molto specificamente, di provenire da Cookstown, dalla contea di Tyrone, dall’Irlanda del Nord, dall’isola irlandese e dalla Gran Bretagna.

Saltare uno solo di questi passaggi sarebbe come falsificare la situazione».

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