Cultura e Spettacoli

Come non far pubblicità ai propri libri

Appena qualcuno sa che sta per uscire un tuo libro, anziché preoccuparsi di leggerlo, ti domanda subito: «Dove lo presenti?». Io rispondo sempre che non lo presento da nessuna parte, si presenta da solo, e ci restano tutti malissimo, come se gli facessi un dispetto. Forse perché la gente pensa che sia meglio venire a una presentazione che doversi leggere un libro. Anche alla Mondadori le signorine ufficie stampe sono quasi sdilinquite quando ho annunciato che non mi interessa fare presentazioni de L’inumano, anzi se me le risparmiano è meglio, e una ha esclamato: «Non si è mai sentito! Tutti vogliono fare le presentazioni!». Se domandate a qualsiasi addetto ai lavori a chi servano le presentazioni, chiunque ti risponde all’autore, non certo al libro.
È una legge scientifica: tanto più un’opera è importante, tanto meno uno scrittore ha voglia di presentarla. Non solo per il principio leopardiano che se uno scrittore conoscesse uno a uno i propri lettori non scriverebbe mai, ma anche per il contrario: sono talmente vivo nella mia scrittura che a vedermi dal vivo non possono non restarci male. Oltretutto se avessi potuto parlare della mia opera ne avrei parlato senza scriverla, quindi il parlarne può solo togliere.
Tuttavia le presentazioni sono sociologicamente utili proprio perché rappresentano la cartina tornasole di questo principio misurabile: l’importanza di un libro è inversamente proporzionale al numero delle presentazioni dello stesso. Se sei uno scrittore vero hai messo talmente te stesso nella tua opera da non avere nessuna voglia di parlarne tu per primo, tanto meno di sentirne parlare un terzo che è lì solo per far piacere a te e si sforza di non sbadigliare mentre spiega al pubblico convenuto, quando c’è, che l’autore ha scritto il libro più bello del mondo. La cosa triste è che perfino il pubblico, essendo per lo più formato da amici o parenti più o meno stretti dell’autore, si sforza di non sbadigliare.
Se studiate le combinazioni di presentatori e presentati avrete anche una mappa delle relazioni editoriali e delle relative marchette: sono tutti rapporti orali reciproci e neppure quando sono di sinistra rappresentano il ’68 ma sempre pornograficamente dei 69 sfalsati nel tempo, io ti do presentandoti oggi tu me lo ut des presentandomi tra sei mesi. In linea di massima i siciliani presentano i siciliani, i sardi i sardi, i pugliesi i pugliesi e i T i Q.
Voler essere presentati è una malattia composta da varie patologie: se per l’autore è la sindrome da tesi di laurea, per il piccolo editore è la sindrome del venditore porta a porta. Infatti, mentre se chiedete ai grossi editori quanto conta una presentazione per la sorte commerciale del libro vi rispondono zero, se chiedete ai piccoli editori vi dicono moltissimo: è l’unico posto dove possono vendere tre copie almeno ai familiari dell’autore. Non mancano editori inesistenti, mai visti in libreria, che si vedono solo nelle presentazioni: tanto paga tutto l’autore.
A parte le diagnosi cliniche, ci sono diverse spiegazioni antropologiche e sociali, nessuna alternativa all’altra, tutte complementari, tutte penose. In linea di massima gli autori desiderano presentare i propri libri perché vogliono essere presentati loro, in carne e ossa, è un modo come un altro per cercare di esistere fuori da Facebook e gli altri social network, il libro è secondario: lo hanno scritto apposta per presentarlo, quindi è il libro che serve a presentare l’autore, mai il contrario.
Nelle provincie italiane ci sono le presentazioni più belle perché sfigatissime, piene di professori e studiosi sconosciutissimi, sembrano i professori ospiti de L’infedele di Gad Lerner che tra l’altro credo siano dei figuranti, nessuno li ha mai visti da nessuna parte. Il massimo della presentazione di provincia è far intervenire qualche rappresentante comunale, essere riveriti dall’amministrazione locale. Infatti se per i giovani autori preferibilmente Einaudi presentare un libro è un modo per far carriera, per gli autori di provincia over cinquanta è il neorealismo fuoritempo massimo: mi ha presentato il professor XY. Talvolta i più intraprendenti riescono perfino a far intervenire l’onorevole XY o a presentare il libro in una sala del Senato. In ogni caso l’iconografia classica di ogni presentazione che si rispetti è questa, sappiatelo, almeno se la vedete anche da lontano fate in tempo a scappare: l’autore sta al centro, cristologicamente, e ai lati due facce da morto si passano mestamente un microfono, come fosse un lumino. Solitamente la sala è così piccola che non ci sarebbe bisogno di nessun microfono ma vogliono parlare lo stesso al microfono, per amplificare il nulla, come quelli che registrano le voci dei morti: l’autore crede che sia la sua festa, non ha capito che è il suo funerale, la certificazione tridimensionale della sua inesistenza. Se volete capire visivamente quanto sono ridicole le presentazioni andate a vedere quante presentazioni hanno fatto Joyce o Kafka o Flaubert, o immaginate un genio vero presentato da un autore italiano: «Antonio Scurati presenta Alla ricerca del tempo perduto.

Sarà presente l’autore». Che poi, a pensarci adesso, anche queste formule standard sono ancora più patetiche e rivelatrici: «Sarà presente l’autore», che significa? Come se avesse potuto esserci la presentazione anche senza l’autore che ha rotto le palle a voi, agli amici, agli amici degli amici, ai parenti, alla fidanzata, alle ex fidanzate, a chiunque per organizzare la sua presentazione di merda, e poi vorrebbe pure non essere presente?

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