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Non solo Di Pietro. Ecco chi «spara» sul Colle

RomaA che si troveranno costretti adesso, ad accusare Napolitano, proprio il primo postcomunista presidente della Repubblica, di essersi convertito al berlusconismo, di aver abiurato la dittatura del proletariato e tradito la causa giustizialista? Non stupitevi se avverrà anche questo, è nell’ordine innaturale delle cose che gli sconfitti irriducibili alzino sempre più il tiro, sino a sparar su se stessi. Più che «incivili», nel senso di non nutrire rispetto per il galateo istituzionale, le forze che rifiutano l’invito del Quirinale a un «clima politico più civile» sono obnubilate da una speranza di rivincita perpetua, temono la presa d’atto della realtà, «ok, abbiamo perso questa mano», come fosse la propria fine, sono giocatori d’azzardo che più perdono e più rilanciano sino a gettar sul piatto pure i figli e la moglie. In questo caso, il padre. Vedrete, spareranno anche su Napolitano, rivangheranno che in definitiva non era nemmeno cattocomunista, anzi faceva la fronda a sant’Enrico Berlinguer, aveva aspirazioni socialdemocratiche e come Berlusconi nutriva simpatie per Bettino Craxi. Lui, il signore del Colle, sembra già preparato se ieri sera a Milano sorrideva coi giornalisti: «Mi sono fermato per salutarvi. Ho visto che non avete declinato l’invito, dato che è di moda declinare gli inviti... ».
E passi per Di Pietro, che fa sconti solo a se stesso e per sottrarre uno 0,5% al Pd è disposto a tutto. È spregiudicato il leader di Idv. Uno che s’arroga il diritto di chiedere scusa «a nome di tutti gli italiani», nemmeno a nome di quell’8% che lo vota, a un giornale inglese esperto in bufale, uno che spende denari pubblici per denunciare all’estero una dittatura che in Italia vede (?) soltanto lui, uno che nutre un tanto sano disprezzo per la democrazia, volete che s’adegui ai richiami del capo dello Stato? «Noi di Idv sentiamo il dovere di declinare il suo nuovo appello», ha mandato nuovamente a dire ieri a Napolitano. Mettendo nel conto anche una chiusura berlusconiana sulla legge riguardante le intercettazioni che invece non c’è: è stato il presidente del Senato Schifani, che definisce «giusto» il nuovo appello del Quirinale, ad aver già disinnescato la miccia sul testo delle intercettazioni, facendone scivolare l’esame alla ripresa autunnale.
È un partito sempre in guerra, quello dipietrista. Come quello di Repubblica e del giornale di Travaglio e Padellaro che uscirà in autunno, Il fatto. E il guaio di Idv è che ormai deve fare i conti con troppa concorrenza. C’è pure il Pdci, che con Pino Sgobio sentenzia come «nei confronti di questo governo autoritario, reazionario e dai connotati eversivi, l’invito di Napolitano non può essere accolto». Certo, le parole e la linea sono pedissequamente dipietriste, e venendo da un partito che non conta più nemmeno un eletto non impensierisce Tonino. Però lascia spazio a preoccupazione il silenzio di Rifondazione: se Ferrero s’unisce a Diliberto nel niet a Napolitano - i due sono già saldati in patto elettorale - finiranno col rubare spazio e scena a Di Pietro. Per non dire di Beppe Grillo, che in sberleffi è certamente più bravo e ferrato del leader di Idv, e che di rispetto nei confronti dell’uomo del Colle ne ha sempre coltivato poco: sta creando problemi seri al Pd con la sua provocatoria candidatura alla segreteria, figurarsi se non può far concorrenza al pur «amico» Di Pietro.
In verità nello stesso Pd, addirittura nella componente postcomunista, mica tutti son disposti a dar retta a Napolitano. Prendete Bersani, che sarà pure obbligato a distinguersi da Franceschini, ma dichiara di rispondere a Napolitano «facendo opposizione civile», e ciò non gli «impedisce di dire che il G8 appena concluso è stato una scatola vuota» e che i provvedimenti economici in arrivo dal governo sono «una vergogna». Probabilmente in sintonia con un altro grande partito anch’esso senza eletti ma forte e potente, capace di condizionare e dar la linea all’intera sinistra, quello di Repubblica. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e diretto da Ezio Mauro, proprietà di Carlo De Benedetti, con l’Espresso continua la guerra come quel mitico giapponese, sordo anche al Quirinale. Va ancora all’assalto a colpi di articolesse chilometriche del fondatore e le solite «torte» dei festini a Palazzo Grazioli. Non paghi dello scorno incassato col G8, insistono. Forse sperano in un miracolo.

O forse è vero che gli dei accecano i votati alla perdizione.

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