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Una notte con i parà sotto il fuoco dei talebani nell’avamposto di Musahi

Forte Sterzing è la base avanzata degli italiani a sud di Kabul. I guerriglieri attaccano fino alle prime luci dell'alba. Poi escono gli sminatori. Il generale Bertolini: "Più soldati non servono"

Una notte con i parà  
sotto il fuoco dei talebani 
nell’avamposto di Musahi

nostro inviato nella valle di Musahi, a sud di Kabul

Si vive così, un po' sospesi, come gli aquiloni che un tempo fluttuavano precari nel cielo di Kabul. Ci sono serate, poi, quando il vento soffia da nord, come stasera, e la sabbia mulina a mezz'aria cancellando i contorni delle cose, in cui tutto sfuma e si confonde: l'angoscia, la nostalgia di casa, il senso di straniamento e l'orgoglio di esserci; l'ultima mano di ramino con i colleghi alla «Tana del sorcio», il pub di Camp Invicta, a Kabul, e la sala operativa «Mambo» che chiama «Plutone 23»; il pianto di un bambino amputato - ancora, dopo tanti anni - da una vecchia mina sovietica e il riso di una ragazzina che corre a nascondersi dietro un cantone da cui spunta un uomo vestito come ai tempi di Saladino che impugna una cosa che potrebbe essere una zappa, ma anche un Ak 47. E certe volte anche con il visore notturno non si capisce. Sono le volte in cui devi decidere in fretta, perché dipende solo da questo, da quanto sei stato svelto a capire, se sarai vivo anche domani. Ci sono serate in cui più di altre tocca resistere e scacciare ombre e inquietudini, come il ricordo delle tre pattuglie - amici tuoi - finite negli ultimi 45 giorni sotto il fuoco degli «insorti», come li chiamano qui.

E non si capisce se sono talebani, qaedisti o briganti di passo, questi «insorti». E allora non c'è di meglio che attaccarsi a qualcosa di concreto, come fa il caporalmaggiore Luca Arenare, 25 anni, di Altavilla Silentina. Lassù «in ralla», fuori dalla torretta del blindato, con il giubbotto antiproiettile, l'elmetto, gli occhialoni e la sciarpa tirata fin sul naso per evitare di mangiar troppa polvere, Luca stringe il pugno sul calcio della sua MG 42/59, carezzando con la sinistra il dorso della sua «ragazza di sempre», pronta a sparare 1200 colpi al minuto. Tocca resistere, le mani artigliate al volante, gli occhi due spilli puntati sul buio, come quelli dell'impeccabile caposcorta Carlo Adamo o del caporalmaggiore scelto Francesco Gatto, conduttore del nostro VTLM: onore e gloria all'ingegnere dell'Iveco che ha progettato questo veicolo tattico multiruolo da 7 tonnellate, 180 chili solo lo sportello, che ha già salvato tante vite (sacrificando qualche cervicale).

Quaggiù, a forte Sterzing, nella tana dei «ragazzi» del 186°, 25 chilometri a sud di Kabul, va in scena una notte come tante. Via dalla capitale, lungo la «Highway seven», la «Indigo» e la «Lince 1», dove il warning diramato dal comando della Folgore parla di «possibili attacchi di 40 uomini guidati dal comandante Darwish». Si viaggia a fari spenti, comprese le lucette di posizione. A voler fare un po' di facile retorica cinematografica, la base avanzata di Musahi si direbbe una specie di «avamposto degli uomini perduti»: una po' fortezza Bastiani di buzzatiana memoria e un po' trincea del '15-18. Una grande valle che verdeggia solo al centro, tra meli, albicocchi, gelsi e campi di grano, circondata da aridi picchi che arrampicano fino a 2400 metri. Il forte, nel mezzo. Camminamenti protetti, le torrette come ad Alamo, lanciagranate da 40 millimetri, le mitragliatrici puntate verso i quattro punti cardinali, la sala mensa e la situation room dei mortaisti bunkerizzate. I primi tre razzi sparati dai talebani che tirano da Suryawun, tra Logar e Musahi, arrivano 5 minuti dopo la mezzanotte. Gli altri 3 atterrano all'1 e 20 del mattino. Razzi cinesi da 107 millimetri, sparati con la stessa tecnica rudimentale dei guerriglieri di Hamas, a Gaza. Puntano sul posto di polizia e sulla caserma dell'esercito afghano di Charasiab. Passano sulle nostre teste, ma cadono lontano dal bersaglio. «Li piazzano su cavalletti di fortuna, li attivano con una sveglia e poi si allontanano con calma», dice il tenente Salvatore Piazza, 27 anni, palermitano, comandante del nostro fort Apache.

I ragazzi della Folgore sono pronti a rispondere al fuoco. Due mortai da 120 rigati, gittata 13 chilometri, sono in linea. Se ci sarà la certezza di aver individuato il gruppo di lanciatori avversari, ecco pronti due devastanti proietti ad alto potenziale. Ma qui non è come al cinema. Si spara solo se è necessario. Alla fine, il tenente Piazza giudica con freddezza che necessario non è. «Il rischio di produrre danni collaterali elevati è troppo alto», spiega. Si faranno le quattro e mezzo del mattino prima che lo stato di allarme si attenui; le cinque e mezzo, prima che gli sminatori escano coi cani in cerca di quel che resta degli ordigni sparati dall'avversario.

Anche stasera sarà una serata come tante, a Musahi. Con le donne che tornano ai loro miserabili tuguri al tramonto tirandosi dietro la mucca e guidando pecore (modello «station wagon», dicono i soldati, perché hanno delle gobbe di grasso sul groppone) e bambini, mescolati alla rinfusa; con gli uomini che vanno nei campi di grano, di cipolle e di patate a notte alta, facendosi luce con i lumi a petrolio o con una lampadinetta da minatore sulla fronte (i più evoluti). Di notte, al buio, quando l'umidità rende la terra più morbida e il sole non fa l'effetto di una fucilata alla schiena.

Al «fast food Mac Musahi», come i soldati hanno ribattezzato la mensa del forte, l'altra sera era di scena una favolosa pasta «all'Osama», con corredo di gamberetti, mentre due ragazzi controllavano il motore elettrico di un Raven, l'aeroplanino da ricognizione che si lancia a mano.

Ah, la mitezza degli afghani. «Li guardi - dice il primo caporalmaggiore Manolo De Vito, 24 anni, di Tor Pignattara - e non riesci a distinguere. Non sai mai chi è il tuo nemico, dov'è oggi la linea del fuoco». Il mese scorso, De Vito si è trovato per due volte di fronte agli insorti. Agguati a colpi di Rpg e di kalashnikov. «Il primo contatto è stato l'8 giugno. L'altro non me lo ricordo. Li segnerò tutti in una volta sul calendario, quando sarà finita».

I «Diavoli neri» della Quindicesima compagnia, le «Pantere indomite», i «Vampiri», i «Sorci verdi» e quelli della Compagnia comando «Potente e indomita» hanno una convinzione: «Se il destino è contro di noi, peggio per lui», dicono.

Nella ridotta di Forte Sterzing si vive così: un po' sospesi, come una volta gli aquiloni nel cielo di Kabul. E ora che la guerra sembra più vicina, anche gli svaghi di Camp Invicta, quando si tornerà a Kabul, sembrano una specie di rilassante retrovia: la palestra, il campetto da basket, due chiacchiere con gli amici alla «Tana del sorcio», una pizza al «Tappeto volante», un po' di internet e le canzoni di Ramazzotti.

Come in guerra, né più né meno.

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