Nucleare, chi dà i numeri non li conosce

Caro Granzotto, lei ha perfettamente illustrato quanto siano gonfiati a dismisura le paure per le radiazioni (che senz’altro uccidono oltre una certa dose, ma sono innocue al di sotto di un’altra dose). Tuttavia, lei sembra rimettere tutto in dubbio quando si chiede se «Tsutomu Yamaguchi fu fortunato e il suo dio gli tese una mano sopra la testa», dando così a intendere l’eccezionalità del caso. Che eccezionale non fu. Cinque anni dopo la fine della guerra, il governo giapponese avviò un monitoraggio capillare su 50mila sopravvissuti alle bombe (tutti noti per nome e cognome) ed esposti a dosi di radiazioni almeno 100 volte superiori alla dose cui tutti noi siamo comunque esposti per ragioni naturali. Ebbene: di quei 50mila, meno del 2 per cento sono a oggi deceduti per patologie connesse alle radiazioni (20mila sono ancora vivi e gli altri sono deceduti per altre ragioni). In particolare, di coloro che di quei 50mila avevano meno di 20 anni nel 1945, oltre il 90 per cento risultava ancora vivo nel 1990, e oltre il 90 per cento di coloro che avevano meno di 10 anni risultava ancora vivo nel 2007. Insomma, il caso di Tsutomu Yamaguchi fu la norma e non l’eccezione. Cosa ci insegnerebbe tutto ciò? Innanzitutto, che le fuoriuscite radioattive dai reattori giapponesi recentemente danneggiati da terremoto e maremoto non avranno, nel tempo, alcuna conseguenza sanitaria, per cui l’isteria collettiva internazionale è ingiustificata; e siccome non vi sono state conseguenze sanitarie neanche nell’immediato (nessun morto, nessun ferito, nessuno che abbia richiesto cure per sovradosaggi radioattivi - solo 3 lavoratori della centrale sono stati tenuti sotto osservazione in ospedale per 3 giorni e poi rilasciati), allora è più che evidente che il caso-Giappone dimostra che il nucleare è la tecnologia di produzione elettrica più sicura a nostra disposizione. Le pare?
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Mi pare eccome, caro professore. Quanto al colpo diciamo così di fortuna del buon Tsutomu Yamaguchi, non mi riferivo certo al suo perfetto stato di salute e alla sua lunga vita nonostante si fosse trovato a Hiroshima prima e a Nagasaki poi mentre sulle due città cadevano le bombe atomiche. Ma al fatto che in entrambi i casi e in quel preciso momento si trovasse a circa un chilometro, metro più metro meno, dall’epicentro dell’esplosione. Area dove di quanti malauguratamente vi si trovavano non scampò nessuno. È davvero indegno che ogni volta che si parla di nucleare demonizzandolo nessuno si prenda la briga di squadernare un po’ di dati certi e scientifici che smentiscono la sedicente portata catastrofica, apocalittica e sterminatrice - il noto «olocausto nucleare» - della fuoriuscita radioattiva da centrali malfunzionanti o danneggiate da eventi naturali. Che nessuno riporti i dati certi e incontrovertibili sugli effetti della radioattività sulla popolazione di Hiroshima e Nagasaki e che lei ci ha ricordato, caro professore. Effetti che stando all’incrollabile luogo comune avrebbero dovuto spopolare mezzo Giappone e comportare generazioni intere di leucemici e di malformati. Che nessuno ammetta la balordaggine dell’isterica reazione all’incidente di Cernobyl, la cui nube radioattiva si diceva avrebbe coperto - basta rileggersi i quotidiani di allora - tutta l’Europa - Italia compresa - seminando morte: 6 milioni di cadaveri secondo la previsione di Greenpeace. Invece 65 furono quelli accertati e tutti entro la cerchia del reattore. (Per il cedimento della diga del Vajont i morti furono 1450. Eppure nessuno manifestò per il «no dams», no alle dighe: l’ottuso, irrazionale imperativo resta il «no nuke», no al nucleare.

Tsutomu Yamaguchi si starà rivoltando nella tomba).
Paolo Granzotto

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