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Allergici ai numeri e al merito. E ora rischiamo la recessione

La crescita che non c'è, processi interminabili, molti anziani e pochi laureati. Così ci siamo fermati

Allergici ai numeri e al merito. E ora rischiamo la recessione

L'olio e il motore. Per una Ferrari sono importanti tutti e due. Se l'olio manca l'insuccesso è assicurato, la quantità utilizzata deve essere quella giusta per lubrificare a puntino tutte le parti meccaniche. Ma se si vuole andare più forte raddoppiare l'olio non serve a nulla. Conviene piuttosto guardare al motore e alle sua prestazioni. Nell'economia è lo stesso: il lubrificante è la moneta, che è indispensabile, e va calibrata secondo le esigenze del sistema, ma non è in grado di influire più di tanto sulla crescita di lungo periodo. Quest'ultima, ha scritto di recente in un articolo sul Sole-24 ore John Cochrane, docente all'università di Chicago, «viene dalle persone e dalla produttività, da quanto produce ogni persona per un'ora di lavoro. A sua volta la produttività viene dall'innovazione, da nuove imprese, da nuovi modi di fare affari e nuovi progetti». Se la misura sono gli anni, a stabilire la velocità di un Paese sono dunque le sue capacità, non altro. La moneta, certo, può sul breve periodo stimolare l'economia. Il già citato Cochrane la spiega così: «È come quando si prende un caffè di pomeriggio: va bene quando vi sentite sonnacchiosi, ma non è saggio prenderlo sempre, e in fin dei conti non può sostituire la dieta e l'esercizio fisico». Eppure in Italia si parla molto di caffè e poco di palestra. Sembra che la salvezza dipenda tutta dalla svalutazione di una nuova lira ormai sganciata dall'euro, oppure da qualche decimale di deficit che l'Europa deve concederci. Una maggiore competitività sui prezzi dei prodotti italiani legata alla svalutazione, o un po' di spesa pubblica in più possono fornire la scintilla necessaria perchè l'economia riparta. Ma poi, di nuovo, è tutta questione di motore. E il motore dell'economia italiana da tempo non gira.

Addio crescita

Pochi giorni fa il dato sulla crescita italiana del primo trimestre 2017 è stato corretto dallo 0,2 allo 0,4%. Se non si è parlato di miracolo, quasi. Eppure, anche con i dati rivisti, siamo sempre in fondo alla classifica: la Germania viaggia a un rispettabile +0,6%, la media europea ci supera di un punto decimale (+0,5%). Il risultato è che secondo le previsioni della Commissione di Bruxelles l'incremento del prodotto interno italiano nell'intero 2017 sarà di circa l'1%, mentre la media del Vecchio continente sarà dell'1,7%. Tutta colpa del fatto che l'Europa non ci consente più di fare debiti come una volta? Si può anche andare più indietro nel tempo, a quando spendevamo più del consentito, ma le cose non cambiano: i debiti li abbiamo fatti, ma la crescita non c'è stata. Dal 2000 a oggi la ricchezza prodotta in Italia è rimasta invariata, contro il più 27% della Spagna, il più 21% della Germania e il più 20% della Francia.

La mancata crescita è strettamente legata al ristagno della cosiddetta produttività, che misura il valore dei beni o dei servizi prodotti da un lavoratore: dalla fine degli anni Novanta non è praticamente cresciuta. La tecnologia è migliorata, internet ci dà un mano, ma un lavoratore italiano in un'ora di lavoro produce in media quello che produceva vent'anni fa. Sulla stasi della produttività sono stati scritti centinaia di studi. Uno dei più citati è quello di due italiani che insegnano negli Usa: Luigi Zingales e Bruno Pellegrino. Per loro il problema è la difficoltà italiana nell'usare in maniera efficiente le nuove tecnologie e nella selezione del capitale umano, soprattutto per le posizioni di vertice delle aziende: anziché merito e competenze si guarda a fedeltà e rapporti personali (specie nelle aziende familiari). Se in una squadra non giocano i più bravi ma il figlio dell'allenatore, i risultati ne risentono.

Processi senza fine

Dinamismo, creatività, capacità di innovazione possono svilupparsi e trasformarsi in produttività e ricchezza se ci sono delle pre-condizioni di base. Una di queste è la bontà delle regole del gioco, in prima battuta le leggi. Non solo devono essere scritte per far sì che il sistema funzioni al meglio, ma chi non le rispetta deve essere sottoposto a sanzioni efficaci. E qui l'Italia è messa male. A parte le pesanti conseguenze economiche di corruzione e illegalità, l'eccessivo peso del fisco, i costi legati alla cronica inadeguatezza della pubblica amministrazione, l'ostacolo probabilmente più grave è la durata dei processi civili, che prolungano all'infinito situazioni di incertezza, allontanano gli investimenti stranieri, premiano gli operatori disinvolti e spregiudicati a danno di quelli efficienti. Secondo i dati ufficiali dell'Unione europea per avere una sentenza di primo grado in un contenzioso civile o commerciale da noi bisogna aspettare 527 giorni (dati 2015). Peggio di noi c'è solo Cipro. Un confronto: in Lussemburgo o in Belgio bastano 86 giorni, in Germania 190. Un diretto impatto economico hanno le procedure per recuperare un credito che non è stato onorato. Da noi, tenendo conto di durata e costi, i procedimenti di insolvenza consentono di recuperare in media poco più del 60% di quello a cui si ha diritto. Negli altri Paesi avanzati, dalla Gran Bretagna alla Germania, si supera l'85%. Un caso particolarmente sfortunato è quello dei crediti non restituiti che paralizzano i bilanci delle banche italiane, che fanno dunque fatica a prestare soldi. La Penisola (Grecia a parte) è maglia nera in Europa. Non solo perché l'economia e le imprese italiane sono in difficoltà, ma anche perché le procedure per recuperare le garanzie (per esempio per vendere un immobile ipotecato) sono, appunto, di durata record.

La laurea non arriva

Un'altra delle pre-condizioni che favoriscono aumento della produttività e della crescita è il livello del capitale umano. Il legame è intuitivo: lavoratori più preparati hanno migliori chance di produrre innovazione o di adattarsi ai cambiamenti. L'Italia ha dosi abbondanti, oltre che di energie imprenditoriali, anche di abilità artigianali, su cui nel passato sono cresciute fior di industrie. Sempre di più però, in aggiunta ai saperi tradizionali sono necessarie conoscenze scientifiche complesse. «Una società in cui la conoscenza è puramente artigianale è destinata a ripiegarsi su un dato equilibrio tecnologico», ha scritto lo storico dell'economia Joel Mokyr, «diversamente da una società in cui il mondo degli artigiani è costantemente pungolato da iniezioni di nuova conoscenza dall'esterno». E qui iniziano i guai. I dati sull'istruzione formale dell'intera popolazione mettono l'Italia agli ultimi posti in Europa. Ma anche se si esaminano i giovani tra i 25 e i 34 anni, fascia d'età particolarmente delicata perché è quella destinata a gestire l'economia del futuro, si nota che solo il 24% è laureato, contro una media del 41% dei Paesi aderenti all'Ocse. A rendere più complicato il dato, come fa notare Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d'Italia in un libro scritto con Anna Giunta (Che cosa sa fare l'Italia), c'è un paradosso: i laureati sono pochi, quindi dovrebbero andare a ruba ed essere pagati di più. E invece non è così: all'estero un laureato guadagna circa il 45% in più di un diplomato, da noi nemmeno il 30. «Pesa la struttura del sistema produttivo italiano, fatto di piccole e piccolissime aziende familiari, che lavorano molto al di sotto della frontiera tecnologica», spiega Gianmarco Ottaviano docente all'università di Bologna e alla London school of economics. «Sotto certi aspetti è un gatto che si mangia la coda: i laureati sono pochi e non contribuiscono a rendere più innovative le aziende. E la richiesta di competenze sofisticate rimane bassa».

Mi si è ristretto il Sud

Sul tema, una volta si chiamava «questione meridionale», si sono scritte intere biblioteche. «Eppure il differenziale nel tasso di crescita tra regioni del Nord e del Sud resta uno dei problemi fondamentali dell'economia italiana», spiega Lorenzo Codogno, per anni chief economist del ministero dell'Economia, fondatore di Lc Macro Advisors, società di consulenza con base a Londra. «Se il Sud iniziasse a convergere verso i dati del Nord, la crescita della Penisola sarebbe assicurata per i prossimi anni. E invece è come se corressimo con un peso sulle spalle». Nel 2015, dopo sette consecutivi di contrazione dell'economia, il Pil del Sud è cresciuto più che quello del settentrione (circa l'1%): merito del turismo che ha beneficiato della chiusura di alcuni mercati per colpa del terrorismo, e di un'annata agricola particolarmente favorevole. Ma già nel 2016 il rapporto tra i due dati è tornato quello abituale. La crisi che ha colpito tutto il Paese, ha lanciato segni profondissimi da Napoli in giù: l'attività manifatturiera ha fatto segnare un calo superiore al 33%, dal 2000 la diminuzione del pil è dell'8,7%. Secondo i dati della Svimez il centro Nord ha recuperato quasi completamente i livelli di occupazione precedenti la crisi, il Sud è ancora lontano, con un numero di occupati che è addirittura del 10% inferiore a quelli del 1992. A preoccupare è l'andamento complessivo degli indicatori sociali, per esempio il dato sull'investimento in educazione: il numero degli studenti meridionali immatricolati nelle università è diminuito del 17% tra il 2000 e il 2015 tra il 2002 e il 2014 l'emigrazione netta ha superato le 650mila unità, ben 133mila erano i laureati. Quanto al trasferimento di risorse da Nord a Sud basta un dato: per le regioni centro-settentrionali l'avanzo primario della pubblica amministrazione (entrate meno spese, escluse quelle per interessi sul debito) è positivo per il 7,5% del loro Pil, nel Mezzogiorno invece le spese superano le entrate per una cifra pari al 15% del prodotto interno.

Siamo tutti pensionati

L'indicatore ha un nome che suona complicato: indice di dipendenza strutturale degli anziani. In realtà, però, si spiega con relativa facilità. È il rapporto tra la popolazione che ha superato i 65 anni e che è dunque in età di pensione, e il numero di persone in età lavorativa, e cioè tra i 15 e i 64 anni. In Italia ogni cento potenziali lavoratori (non è nemmeno detto che tutti abbiano un'occupazione) ci sono 33,7 anziani. Si tratta del dato più alto in Europa: la media europea è di 28,1 e i Paesi più «giovani» sono Slovacchia (19,7) e Irlanda (20). Il dato italiano è, come detto, il più alto e per questo anche il peggiore. Evidenza infatti come l'invecchiamento, accompagnato da una riduzione degli scaglioni di popolazione giovanile, pesi sulla struttura produttiva del Paese. Già adesso l'alzarsi dell'età media ha un impatto di assoluto rilievo sui conti pubblici: in pratica un terzo della spesa pubblica finisce in assegni pensionistici, mentre la spesa sanitaria, tenuta a freno dai periodici «tagli» è in tendenziale ascesa anno dopo anno. E il cosiddetto debito demografico è destinato a crescere ancora. «Di fronte a una situazione di questo tipo le alternative possono essere tre», spiega Ottaviano.

«Più delocalizzazione con il trasferimento di molte produzioni all'estero, più automazione, o più immigrati, destinati a fare il lavoro degli italiani».

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