Politica

OBAMA SVEGLIA LA SINISTRA DAL SOGNO

Dalla durezza delle reazioni dei commentatori liberal, fino a ieri orgogliosi corifei del presidente, ora Cassandre del ritorno del bushismo, dal compiacimento dei conservatori, che si sono cimentati in lodi sincere dell'operato del presidente, dopo mesi di denuncia sullo sbando e i rischi per i soldati all’estero, possiamo agevolmente dedurre che la fase liberal del presidente più liberal mai eletto alla Casa Bianca sia stata abbandonata e per sempre, almeno nei marosi della politica estera. Non è una notizia stupefacente, almeno non per chi conosca i meccanismi politici del sistema americano e i meccanismi mentali dei cittadini americani; mai uno sprovveduto, un velleitario, un comunista, un cretino, tanto meno uno che non pratichi senso della realtà e arte del compromesso, verrebbe eletto a quella carica. Rappresentò eccezione, a mio parere, quello statista tanto mediocre quanto incensato in Europa, che fu ed è Jimmy Carter, e del quale il Paese si sbarazzò rapidamente, dopo l'ignominia della presa dell’Ambasciata Usa a Teheran; ha, per alcuni versi, rappresentato eccezione George Bush junior, l’ultimo presidente repubblicano, che ha scelto una gestione ferma, imperiale, delle sue prerogative, che ha finito il secondo mandato senza più consenso, ma che consenso ha avuto, e a lungo, e che ha dovuto governare, dopo la strage delle Torri Gemelle, due guerre lunghe e faticose.
Sono le stesse guerre alle quali Barack Obama è facilmente sfuggito durante la fase felice della campagna e delle promesse elettorali, perfino dell’enunciazione del programma e dei primi giorni di insediamento, ma che lo hanno poi riacchiappato, presentandosi a colui che guida la potenza più grande del mondo per quello che sono: responsabilità tremende, rischi formidabili, compiti di quel Paese. Alla luce cruda della realtà i miti liberal sono destinati a squagliarsi.
Così Obama ha dovuto ascoltare il segretario alla Difesa, Bob Gates, repubblicano, e i più importanti generali, tutti nomi famosi anche fuori dai confini degli Stati Uniti: il capo degli Stati Maggiori, Mike Mullen; il comandante di Centcom, David Petreus; l’ex comandante delle truppe in Afghanistan, David McKiernan; il nuovo comandante sul fronte afghano, Stanley McChrystal il comandante in capo nel fronte iracheno, David Odierno. Così il presidente è tornato sui suoi passi e sulle promesse elettorali, quelle critiche feroci alle Commissioni militari, giudicate «incapaci di giudicare correttamente», quello slogan troppo facile, «eight is enough», otto anni sono stati fin troppi, come se con uno scrollone fosse possibile liberarsi dei problemi. Ha vietato di pubblicare le foto dei prigionieri iracheni torturati da militari statunitensi, ha comunicato che restano in attività i tribunali speciali istituiti per giudicare i detenuti di Guantanamo, sia pur con la onestamente vaga promessa di alcuni diritti di difesa in più garantiti agli imputati. Ha lasciato circolare liberamente la voce che carceri e tribunali potrebbero trasferirsi sul territorio americano, non più in basi estere.
La risposta fornita dalla Casa Bianca ai media liberal furibondi, alle organizzazioni dei diritti umani sdegnate, alla parte più radicale del Partito Democratico, che si è per poche ora sentita egemone anche se fortemente minoritaria, è semplice, e assomiglia vistosamente alle risposte fornite dalle Amministrazioni Bush dal 2001 al 2008: il Paese si deve difendere, i nemici degli Stati Uniti non possono essere lasciati liberi né impuniti. Il presidente ha doveri tremendi e ineludibili. La crisi economica e finanziaria è la peggiore possibile dal crollo del 1929, le guerre in Afghanistan e in Irak continuano, anzi la prima va ripresa e gestita con pugno di ferro. L’Iran ha risposto male alle aperture di credito del presidente, e la liberazione della giornalista Roxana Saberi rappresenta un ben magro trofeo rispetto ai passi che quella dittatura dovrebbe fare per non rappresentare più il pericolo che rappresenta nell’intera regione. Il Pakistan è in guerra civile, e il coinvolgimento americano è quasi inevitabile. A Barack Obama tocca, come già, e spesso con risultati frustranti, è toccato ai suoi predecessori, arrivare al Cairo il 4 giugno con un nuovo, vincente, piano di pace per il Medio Oriente.

Come volete che possa cavarsela, e proseguire nel suo mandato finora baciato da consenso e successo mediatico, se non rassicura tanto i militari quanto gli americani? Alla sinistra europea qualcuno dovrebbe spiegare che, proprio come ampiamente prevedibile, il dream è finito subito.

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