Controcultura

Gli oggetti di Alligo, eterni con l’anima

Guanti, camicie, maglioni, volti: nelle terrecotte infonde il suo stesso spirito, lasciandovi una parte di sé per i posteri

Gli oggetti di Alligo, eterni con l’anima

S i può iniziare dalla intuizione del paragone con il fornaio di Abyaneh, che io vidi cuocere focacce come fossero sculture, in una spedizione in Iran, verso paesi remoti. In una sua terracotta del 1993, Santo nel buco, Alligo sembra affacciarsi dalla bocca di un forno. Una premonizione. E una affinità, materiale e spirituale. Ma, nel racconto delle affinità fra il fornaio e lo scultore, non entravo nel merito delle sue sculture, che vanno oltre i confini delimitati dalla metafora. Santo Alligo, infatti, si mostra con diversi volti. E non manca quello «americano», a fianco di quello che lo rende consentaneo e affine, a diversi livelli, a un Ceronetti e a un Carlin Petrini. A quest’ultimo genere appartengono le cose più antiche, che sfiorano ormai i cinquant’anni, come la bella ed espressiva terracotta Loris, che esprime gli affanni di un giovane poco più che adolescente; e le anche più intense, per gli umani affetti, Mia madre Paola, concentrata e malinconica, Mariolina Cecere e Lino Alligo, tutte del 1975, anno di grazia plastica.

Alligo, nato a Roccalumera (Messina) nel ’48, da anni residente a Torino, tra i più grandi studiosi dell’illustrazione italiana (Pittori di carta) e tenace bibliofilo, racconta pensieri e sogni. Di qualche anno dopo sono le probabili suggestioni di Domenico Gnoli nelle opere Maglione di lana, Camicia, Guanto di lana e pelle, del 1980, insolitamente vive ed espressive. La superficie scabra della Camicia ricorda Antonio López Garcia; ma non è la realtà che interessa Santo Alligo, bensì la sua essenza, come in Gnoli, appunto, o in Oldenburg. Iperrealismo e Pop-Art concorrono negli esiti della piena maturità, come il Giubbotto di pelle del 1992 e Guanti di gomma del 1993. Così piegano verso Oldenburg Swatch e Lacoste, con una policromia luminosa che allontana la realtà più intensamente spirituale delle terrecotte non dipinte. Santo entra in un abisso, dal fondo del quale ci guarda. Ed è la pensosa immagine del suo volto malinconico e perplesso, che ci chiama al realismo integrale della Vecchia Sperry, una terracotta dipinta che riproduce mimeticamente l’effetto di una scarpa di cuoio, o di Attesa, una terracotta dipinta che riproduce due guanti di pelle. Alligo non intende confondersi con i maestri della ceramica, e presume di sé come scultore in terracotta, in una tradizione aulica, legata a soggetti alti, che non il genere, ma la sua sensibilità interpreta. Le sue scarpe, come quelle di Van Gogh, hanno un’anima. Ma ciò che è più prezioso è lo spirito di Alligo (alcune opere del quale sono esposte alla mostra «Si può scolpire l’anima?», presso il Musa di Salò), che vede le cose con assoluto candore e le riproduce senza alterarle, lasciando scorrere su di loro il tempo come scorre e lascia i segni sui volti delle persone. Anche gli oggetti, le cose, egli sembra dire, hanno un’anima. E parlano di noi, come un armadio di abiti di qualcuno che non c’è più. Sugli oggetti che egli riproduce resta una parte di lui. Sono le sue scarpe, i suoi guanti (atteggiati in attesa), le sue camicie, la sua Lacoste, così come sua è la copia de La Stampa.

E mentre Alligo guarda il mondo dal suo punto di osservazione, dal suo «buco», il mondo gli appare e ci appare a sua immagine e somiglianza. Il suo sguardo è intenso, concentrato, preoccupato. La fronte si corruga: egli deve lasciare al mondo il suo messaggio. Lo lascia attraverso tutto ciò che certamente ci sopravvive, gli sopravvive. Non vuole lasciare trattati, messaggi per l’eternità, vuole lasciare ciò che gli è stato vicino, che ha toccato. In quelle cose è impigliata una parte della sua anima. Lui se ne andrà, loro resteranno. In fondo, il significato di queste opere corrisponde a quello di una meravigliosa poesia di Borges in Elogio dell’ombra, cioè Le cose: «Le monete, il bastone, il portachiavi, la pronta serratura, i tardi appunti che non potranno leggere i miei scarsi giorni, le carte da giuoco e gli scacchi, un libro e tra le pagine appassita la viola, monumento d’una sera di certo inobliabile e obliata, il rosso specchio a occidente in cui arde illusoria un’aurora.

Quante cose, atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi, ci servono come taciti schiavi, senza sguardo, stranamente segrete! Dureranno più in là del nostro oblio; non sapran mai che ce ne siamo andati».

Commenti