Politica

Le opposte logiche di Casini

Quando Pier Ferdinando Casini afferma che esiste lo spazio per un «grande centro» ma dice anche che, senza l'Udc, il centrodestra rischierebbe di stare all'opposizione per vent'anni, segue due logiche diverse per cui sarebbe opportuno che chiarisse.
Partiamo da questa seconda, espressa con forza durante la trasmissione Otto e Mezzo di lunedì scorso. Dire che l'Udc, con il suo (forse) 6% di voti è determinante per i successi elettorali del centrodestra, significa due cose: accettare lo schema bipolare e assumere una posizione contrattuale da piccolo partito marginale. Far pesare, infatti, il proprio contributo elettorale, ancorché limitato, è stata la prassi seguita fin dal 1994 dai piccoli partiti, che per questo si sono moltiplicati. Ma significa accettare la logica del bipolarismo imperfetto. Casini non può sostenere che il suo contributo è essenziale alla vittoria del centrodestra e allo stesso tempo non considerare altri contributi altrettanto indispensabili, primo tra tutti quello della Lega, nei cui confronti mostra crescente insofferenza.
A tutt'altra logica risponde l'ipotesi del «grande centro» di cui l'Udc vorrebbe costituire il nucleo magnetico. Infatti la costruzione politica di uno spazio significativo tra centrodestra e centrosinistra passa anzitutto per una legge elettorale integralmente proporzionale, e quindi non modificata da un premio di maggioranza a un singolo partito, come si sta ipotizzando da alcuni, e in secondo luogo passa per il rifiuto del bipolarismo, aprendo lo scenario non all'alternanza ma a maggioranze variabili portate in Parlamento da accordi tra i vertici dei partiti. In questo caso emerge un'altra contraddizione: come fa Casini a dire, con un certo disprezzo, «i vertici li facciano loro, li facciano Berlusconi, Fini e Bossi», e poi ipotizzare la formazione di maggioranze che passerebbero proprio da accordi tra vertici?
Se il bipolarismo sta stretto a Casini, la partitocrazia su cui necessariamente ricade, rischia di annegarlo. In realtà egli cerca di sfuggire a questa alternativa sostenendo che il «grande centro» ha notevoli prospettive potenziali, anche se non quel 38% che Rocco Buttiglione, a Porta a porta, ha ricavato per differenza dal 62% di italiani che, secondo un sondaggio, vorrebbero due grandi partiti. Perché in quel 38% c'è una buona parte di assenteisti e sarebbe arbitrario considerarli tutti ansiosi di ridare vita alla Dc come «balena bianca».
Forse è proprio su questa premessa che Casini prende un abbaglio. C'è veramente nostalgia della Dc? In fondo è stata la Dc - che non portò la libertà politica, frutto invece della vittoria militare angloamericana, e che non portò la libertà economica, legata alla concessione degli aiuti del Piano Marshall - a guidare la politica italiana fino al collasso della Prima Repubblica, che con essa e i suoi alleati si identificava e il cui bilancio ha una sola cifra: quel debito pubblico pari al 120% del Pil lasciato come eredità ingestibile ai governi succedutisi dal 1993 in poi. Il debordamento dei poteri del Quirinale, della Corte costituzionale, del Csm e della Magistratura, dei sindacati, degli Enti locali; la progressiva rinunzia alla meritocrazia, la svalutazione della scuola dalle elementari all'università, gli sprechi del sistema sanitario, la politicizzazione della Pubblica Amministrazione - sono i lasciti assai poco onorevoli di quella Dc a cui Casini guarda con orgoglio.

Se Casini riflettesse un po' a fondo sulla sua ipotesi di base, invece di teorizzare il suo stare nel centrodestra ma in modo diverso, renderebbe un servizio alla chiarezza.

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