Cultura e Spettacoli

OUTLET Le cittadelle dei sogni in svendita

Anche il tempo in cui si poteva scrivere «mi ricordo» è trapassato remoto quanto la mortadella con il pistacchio tagliata al coltello dal salumiere tirato a lucido come un chirurgo, con il suo camice di popeline a sei fili, il capello brillantinoso, gli stracci per ripulire le lame sempre nettati. E poi che dire di quando i pizzicagnoli affondavano il coltelluzzo di acciaio (a forma di cuore o Istria) nei pecorini e nei parmigiani? Ne usciva fuori uno sperone lagrimoso. Gli italiani, al sabato di paga, facevano la fila solo in due posti: dal salumiere e dal barbiere. C’è da ricordare che durante la settimana l’avevano fatta dal medico della mutua. Ma quando i supermercati, gli iper, gli outlet non esistevano, gli italiani andavano anche a comperare la stoffa per i calzoni e la giacca di sabato, per poi passare dal sarto che ancora non era trendy e poteva benissimo chiamarsi signor Nessuno invece che col nome degli stilisti post Lebole e degli artigiani resuscitati o sopravvissuti come Caraceni, Attolini, Mariano Rubinacci. Ora se ci pensate bene qualche norcino sopravvissuto si è trasformato in boutique, e i sarti se non sono da tremila euro in su non contano niente. Questi sono tempi da boutique di massa, cioè da Outlet, che in fondo in fondo con quel «mi ricordo» trapassato qualche cosa hanno da spartire. Che cosa? Camminare senza l’assillo delle automobili.
A Castel Romano, sulla Pontina, proprio di fronte agli ex Studi cinematografici De Laurentiis, c’è il più grande Outlet di Roma. È una cittadella con un parcheggio per centomila automobili. Come superi il cavalcavia un cartellone ti annuncia che già stai costeggiando il paese dei balocchi: Qui liberi la tua voglia di fare shopping, recita il messaggio. E pensare che un tempo, come parola «bassa» in slang, outlet significava «spazzatura». Poi si è trasformata in «sogno realizzabile», infine in «spacci aziendali» e in Italia, gli outlet, sono arrivati dopo l’esperienza inglese e francese grazie a un accordo, a una joint venture, tra gli immobiliaristi fiorentini Corrado e Marcello Fratini e il gruppo anglosassone che, attraverso i progetti dell’architetto McArthur Glen, aveva varato, a esempio, la cittadella di Ashford in Inghilterra o quella di Roubaix in Francia. Cittadelle senza case ma case per vendere merci, soprattutto abbigliamento e utensileria. Cittadelle da set cinematografico, pittate a colori pastello dal sapore rinascimentale o spagnoleggiante o neoclassico, con accenni che vanno dal Messico riveduto e corretto a tante Las Vegas senza bische e stroboscopiche ma però accerchiate da spazi pseudo desertici per via della lontananza dalle metropoli. Insomma cittadelle che ricreano «cortili» globali al posto di quelli scomparsi. Cittadelle tutte uguali che nell’Outlet di Roma hanno vie da Fori e piazze (non a caso in piazza Marco Aurelio in vece del macellaio o del mattatoio comunale o del mercato del bestiame assenti, c’è una gran capoccia di cavallo che funge doppiamente da ex voto per il macellaio defunto e da citazione) che suonano romanità, che risuonano dei passi plebei e patrizi che in venticinquemila, tra sabato e domenica, calpestano la pietra lavica di piazza Adriano, via Caracalla, piazza Tito, piazza Traiano.
Il primo outlet italiano nasce a Serravalle, provincia di Alessandria, poi è la volta di Barberino, di Castel Romano, di Valmontone in provincia di Roma, appunto sull’autostrada Roma-Napoli. A Castel Romano c’è il tendone da circo dove giocano i bambini e il «servizio nursery»: è possibile ritirare gratuitamente il kit per il cambio del tuo bambino. Ogni settimana lo visitano sessantamila persone per un giro di affari annuo che si aggira sui centoventi milioni di euro. Ci sono oltre cento negozi di altrettante maison illustri e firme eccellenti o popolari (Castel Romano eccelle per clienti medio-alti e per abbigliamento di qualità) che direttamente gestiscono i punti vendita applicando sulla merce sconti che vanno dal 30 al 70 per cento giacché (non è stato ancora detto) la radice, il senso di quella parola «bassa» (spazzatura) che segnalava la nascita degli outlet ora sopravvive nel doppio salto mortale dell’evoluzione commerciale in svendita di lusso. Ecco, negli outlet si vende merce dell’anno passato, si consumano le rimanenze di magazzino... Di Prada, a esempio, si può trovare solo il 43 di quelle belle scarpe con le stringhe... In fondo l’outlet è un grande mercato al chiuso dove si fa anche lo struscio e dove, seppure con molta immaginazione, il cliente o visitatore o gitante o nullafacente può illudersi di passeggiare nel frullato di ViaMontenapoleoneCondottideiMille fino a Parigi, Londra, Madrid, New Jork e compagnia bella. Del resto qui si compra: Adidas, Brooksfield, Bassetti, Lagostina, Pollini, Prada, Dolce & Gabbana, Valentino (prossima apertura), Versace (recente chiusura), La Perla, Puma, Benetton... E poi, siccome la vicinanza ai Colli Albani e dunque ai Castelli Romani (non a caso è stato scelto il nome della località: Castel Romano) è minima, e siccome tradizione popolare vuole che soprattutto a Frascati si mangi porchetta annaffiata col bianco nelle «fraschette», si è pensato giusto aprire una Fraschetteria: il doppio salto mortale evolutivo di quella che fu «frasca».
Nell’outlet non c’è problem. Trovi la visagista, il parrucchiere, la baby-sitter, chi ti lava il cane, chi ti massaggia e io trovo pure, da Loro Piana, Francesca che è una commessa piemontese trapiantata qui sul confine tra l’Agro Romano e l’Agro Pontino che è discretamente scettica sul mio ruolo di reporter ma che, grazie ai miei modi garbatoferoci, mi spiega addirittura la «tecnica»: «... Invece questa giacca di cotone è termosaldata. Questo materiale si chiama windmate. È una microfibra molto battuta. Vede, ha un aspetto setoso. Loro Piana è stata la prima azienda al mondo a impermeabilizzare i tessuti pregiati». Brava e piemontese Francesca, ma la taglia del mio probabile acquisto non c’è.
Una torinese lascio, una romana trovo. Devo dire che la boutique da outlet di Roberto Cavalli (comunque per me non ha nessuna taglia, né 52 né 54) ha tracce televisivolussuose. Per puro gioco, e soprattutto per estorcere tic e informazioni e segreti «occulti» della cittadella in questione, incomincio a provare di tutto: giacche pitonate, pantaloni intuculospaccati, scarpe per schiacciare gli scarafaggi agli angoli. Il primo commesso che mi si presenza mantiene labbra cucite e orecchie siliconate. Ma per fortuna che Giorgia è una ballerina gentile con un tatuaggio di edere che mimetizzano un minuscolo pavone che sta tra il polso e l’avambraccio destro. È carina, comprensiva, sa addirittura che la Cittadella copre un’area di cinquantamilametriquadri, occhio e croce. Ma la cosa che mi stuzzica è che Giorgia sa di boutique da passato remoto d'Italia: quando su passerelle invisibili o per pochissimi amici sfilavano Pucci, Spagnoli, Longhi, i Francesissimi. «Per le giacche può tornare la prossima settimana» mi consiglia lei che può stare benissimo a Montecatini Terme, a esempio, nella gioielleria di Cartier... Sono rinfrancato, mi dico: Lo vedi che anche negli outlet l’Italia non è del tutto morta?
Devo dire però che l’Ufficio Informazioni è scarso. Mi è parso un po’ blindato, inaccessibile. Ma come?, siamo in una boutique globale e bisogna fare anticamera, bisogna ingannare l'attesa guardando le foto dei vip che sono sfilati nelle varie inaugurazioni? La centralinista che si chiama come la cugina di san Francesco ma che non vuole dare il suo nome, è in apprensione legittima perché racconta che da giorni e giorni «qualcuno» le telefona in ufficio e riattacca. Però la cosa scocciante è che questo «qualcuno» si apposta dietro le automobili la sera quando termina il turno e questo le dà fastidio, ecco perché ora parla con un ragazzone fatto di palestra con tanto di tuta blu e pistolone: perché nell’outlet non si può fare del male a nessuno, nessuno può toccare nulla, spostare nulla. Uomini, mezzi e telecamere sorvegliano le passeggiate da «Grande Fratello», da sfondo Nokia dove si percepisce il giallognolo camomilla della montagna purgatoriale. Eppure tutto questo non è scocciante, anche se le risposte che ottengo dalle persone che vado a importunare sono da asilo infantile (ma non dimentichiamolo: gli outlet sono asili infantili!).
Aga è una ragazza polacca che oggi non ha comprato niente come me. Ma a Castel Romano mi dice: «Ci tornerò sempre perché bello, io passeggio e diverto. Ci tornerò sempre». Ecco allora che cosa capisco. L’eterno ritorno del «ci tornerò sempre» è lo stesso ritornare di un tempo dal pizzicagnolo di via Volturno che schiodava il barattolone di tonno come fosse il tesoro dell’Isola del tesoro. Lo stesso che spalancava una ciriola come fosse l'identico gesto del barbiere sulla guancia o del barista che poggiava al rallentatore la tazzina del caffè nel piattino... Però mi accorgo che ci vuole molta fantasia per tracciare una linea che unisce il passato remoto all’outlet. Forse la malinconia unisce. Infatti il fascino dell’outlet sta nel sentimento della malinconia. Queste cittadelle in fondo sono luoghi sentimentali, malinconici. Scopro che la fioraia, a esempio, fa questo lavoro per amore. «Sono francese. Sono nata sul confine belga. Sto qui perché ho sposato un italiano che amava i fiori». Mi sembra pazzesco. Mi sembra cosa da pazzi dire questo qui. Eppure è roba da outlet.
A Castel Romano, mi dicono, sono in via di apertura altri trenta punti vendita. Carlo Conti - stesso nome del Conti presentatore ma romanesco civile e tosto, che qui fa il barista e mi serve un tartufo affogato al caffè su un tavolino di alluminio senza il solito mangime per piccioni -, mi racconta che Castel Romano quando è tempo di «saldi» diventa una «festa ricca!», proprio così mi dice, proprio così definisce la festa, mentre io so che si tratta del solito doppio o triplo salto mortale dell’evoluzione commerciale che da «spazzatura» è andata a finire che si veste Etro, o come il simpatico ragazzo che si chiama Stefano Calderone che, è ovvio, fa il commesso: il commesso di Zegna. Castel Romano è identico a tutti gli altri outlet sparsi in Italia o in Inghilterra o in Francia. Manca una farmacia e una libreria. Per la farmacia non c’è niente da fare: non ho capito bene perché non possono aprirla. Per la libreria, invece, mi pare d’aver inteso che ci sono possibilità, rientra nei piani commerciali. Mi viene quasi quasi la voglia di inaugurarla: sarei il primo libraio outlet d'Italia.


(1.Continua)

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