Cultura e Spettacoli

Padre e figlio espongono insieme. Ma i Vitali non fanno bottega

da Venezia

Non c’è solo il gioco anarcoide di sovvertire i valori del sistema dell’arte, nelle scelte per il Padiglione Italia di Vittorio Sgarbi. Lo stesso meccanismo di selezione, che affida a terzi l’individuazione degli artisti, produce intrecci che sono di per sé storia e percorso. Capita così che Andrea Vitali, scrittore lariano che da sempre ambienta i suoi romanzi nello stesso paese di lago, Bellano, abbia indicato per la Biennale il nome di un suo conterraneo, il pittore Giancarlo Vitali, artista che per molti anni ha continuato a dipingere al riparo da ogni tentazione di adeguamento alle mode, guardando solo a riferimenti altissimi, da Rembrandt a Varlin. Che Andrea e Giancarlo portino lo stesso cognome giornalisticamente non fa notizia: a Bellano i Vitali sono 61 soltanto sull’elenco del telefono. Decisamente più curioso è la presenza alla Biennale anche di Velasco, figlio di Giancarlo, il cui nome è stato indicato dall’epistemologo Giulio Giorello. Che padre e figlio siano entrambi presenti nella stessa edizione della rassegna veneziana è, questo sì, un fatto eccezionale.
È facile dunque cedere alla tentazione, visto che entrambi vivono e lavorano ancora a Bellano, di dipingerli come l’ultimo prodotto della tradizione italiana delle grandi botteghe artistiche. Ma Giancarlo e Velasco non sono i Palma o i Bassano, e non è forse un caso che il figlio sia oggi spesso citato solo con il nome di battesimo. Entrambi di formazione antiaccademica, e però almeno inizialmente legati alla pratica accademica per eccellenza, quella del disegno, i Vitali hanno fatto scelte differenti. Giancarlo ha continuato tutta la vita a dipingere le cose che aveva attorno, pollame e pesci, girasoli e conigli appena squartati, oppure i personaggi che facevano parte della commedia umana del paese, un repertorio di fisionomie a cui le stesse storie dell’amico scrittore si sono ispirate. Il suo capolavoro è il cosiddetto Trittico del Toro, un tour de force che riconduce la morte al piano della pietas, e dunque della relazione tra quel che resta della vita e lo sguardo di chi rimane. Il lavoro che porta alla Biennale stressa questa ricerca in un dipinto in forzatura prospettica intitolato Duemilaundici. È una crocifissione, o quel che ne resta: tutto ciò che vediamo sono piedi, caviglie, il chiodo che le fissa al legno. Un controcanto laico, che prosciuga Passione e mistero, e ci dice che attaccato alla memoria resta solo il dolore.
Velasco prosegue invece alla Biennale la ricerca sulla scultura che ha abbracciato da qualche anno, con il lavoro per cui è più conosciuto, quello sui cani. Ha scelto di titolare la sua installazione Veidrodis, una parola lituana che vuol dire «Ciò che fa vedere il tuo volto». Tre figure umane, modellate in catrame, ferro e stracci, sono appoggiate su una grande pedana d’acciaio. Con diverse posture e atteggiamenti sembrano irresistibilmente attratte non già dall’immagine di se stessi riflessa, ma dal fatto stesso che il luogo in cui si trovano abbia questa proprietà riflettente, che le aiuta a pensare a sé stessi come storia, attualità e potenziale. È facile leggervi un’allusione a Venezia stessa, ma come sempre con Velasco la lettura è stratificata: se si osserva l’arte come prodotto, e dunque solamente le tre sculture, non si vede niente. Se si entra invece in relazione con il piano di realtà a cui l’opera allude, allora l’arte torna a parlarci.

E a dire che il rapporto con la tradizione di cui siamo fatti non può essere mai, anche quando lo sembra, una conferma narcisistica delle nostre certezze estetiche: l’immagine che ci rappresenta è sempre qualcosa che ci provoca e ci smuove, per quel che nasconde e quel che fa vedere.

Commenti