Controcultura

Il Paese che non dimentica e che non vuole ricordare gli anni bui del comunismo

Monumenti rimossi, musei sull'ex regime visitati solo da stranieri: i cechi non vogliono rivivere il passato

Paolo Bracalini

nostro inviato a Praga

«La morte di una persona è una tragedia, la morte di milioni è statistica». La frase di Stalin, incisa su una placca di ottone tra i cimeli della Cecoslovacchia, accoglie chi entra al Museo del comunismo a Praga sulla Na Píkop, la via dello shopping. Un palazzo rococò dai soffitti affrescati la cui eleganza collide col grigiore che si respira tra i busti dei gerarchi socialisti, i manifesti della propaganda, i quadri celebrativi sul lavoro nelle fabbriche e nei campi, la riproduzione dell'ufficio per gli interrogatori della polizia segreta, la famigerata StB (Státní bezpenost, «sicurezza dello Stato»), quella del negozietto di alimentari con i pochi prodotti disponibili negli anni '70 grazie alla «pianificazione centralizzata» (mancava anche la carta igienica e ci si aiutava col sarcasmo: «Ogni bravo cecoslovacco si pulisce il culo con il muschio», era il motto popolare).

Il museo l'ha fondato sedici anni fa un americano, Glenn Spicker, traferitosi a Praga dopo la Rivoluzione di velluto (1989): cinquantamila visitatori l'anno, quasi tutti stranieri. I cechi, specie gli over 40 che hanno vissuto la giovinezza sotto il regime, non hanno bisogno né alcuna voglia di rivivere il passato («non mi serve andarci, ci sono cresciuto dentro!», è la risposta che davano a Spicker quando esponeva il suo progetto). Il ricordo è indelebile e ancora fortissimo, le tracce un po' ovunque, nei palazzi squadrati che spezzano l'eleganza dell'architettura praghese - gotica, barocca, neoclassica, art nouveau -, nei pochi monumenti sopravvissuti tra quelli eretti per commemorare la liberazione sovietica del 1945 (come La fratellanza, un ufficiale russo accolto con un bacio e un mazzo di fiori da un ragazzo).

Tra i cento campanili di Praga (contati personalmente dal grande matematico boemo Bernard Bolzano) svetta la Torre ikov, ma non certo per la bellezza. Lo sgraziato antennone della tv pubblica, iniziata e progettata nell'ultimo decennio comunista, domina (e in parte rovina) lo skyline praghese con i suoi 216 metri. Sulla torre si è esercitata l'ironia del popolo verso i politici comunisti. Soprannominata Dito di Jake, segretario del partito fino al 1989, oppure L'ago di Bilak, altro politico stalinista, slovacco, che di mestiere faceva il sarto. La sua reputazione non era il massimo, così il popolo raccomandava: «Meglio che Bilak non faccia giacche» (e ancor meno politica). Oggi, ironia della sorte per un monumento del socialismo reale, la torre ospita un hotel super lusso con una sola camera, da mille euro a notte. Non c'è più, invece, il carro armato sovietico numero 23 (il primo a entrare a Praga) nel quartiere Smíchov, ridipinto di rosa nel 1991 per provocazione dall'artista David Cerný, mentre è in corso un dibattito pubblico se lasciare la statua del generale russo Konev nel distretto 6 della città oppure rimuoverla e mettere solo una targhetta. Ricordare o dimenticare?

Anche la memoria è stata sofisticata dalla propaganda sovietica. Per quasi mezzo secolo l'anniversario della liberazione si è festeggiato il 9 maggio, data in cui l'Armata rossa entrò su Praga, anche se l'8 maggio la parte ovest della Cecoslovacchia (la città di Pilsen, famosa per la birra) era già stata liberata, ma dagli americani. Nelle scuole era vietato insegnarlo ai bambini, proibito anche solo ricordarlo (il motto da mandare a memoria invece era «con l'Urss per sempre»). Su alcuni campanili delle chiese sono ancora conservati gli strumenti di controllo della polizia segreta. Dai 71 metri della torre della chiesa di San Nicola a Malá Strana, per esempio, la StB spiava i movimenti dei funzionari delle ambasciate straniere, ospitate tutte nel raggio di pochi centinaia di metri. «Il giorno della festa del lavoro eravamo tutti obbligati, lavoratori e studenti, ad andare in piazza Letná a sentire i discorsi dei capi del partito comunista - racconta Jana Zemanová, storica della lingua russa e oggi guida turistica a Praga -. Per fare andare più gente possibile mettevano delle bancarelle dove si potevano trovare arance e banane, frutta per noi esotica che si poteva trovare solo a Natale in poche quantità e dopo code interminabili. Io ero una ragazzina, con le amiche cercavamo di andarcene senza essere visti dalla polizia. Nessuno di noi ricorda volentieri quel periodo di miseria morale e mancanza di libertà. Eppure se guardi le riunioni del Partito comunista ceco non è cambiato niente, è incredibile».

La crisi economica degli ultimi anni ha risvegliato imprevedibili nostalgie. Solo qualche settimana il Kscm (Partito comunista di Boemia e Moravia) ha riconfermato lo stesso gruppo dirigente del passato, a partire dal presidente del partito, Vojtech Filip, già esponente del Kscm negli anni '80. Stesse persone, stesse idee: uscire dalla Nato, riscattare la società dal «controllo degli oligarchi e dei monopoli capitalistici». Eppure alle ultime elezioni il partito comunista ceco ha preso il 12%, e per le regionali che si terranno a breve è stimato al 14%.

Dopo decenni in cui era impossibile espatriare (mai una famiglia intera contemporaneamente, si andava a turno e comunque dopo un estenuante iter burocratico per i visti), viaggiare all'estero è oggi il più popolare lusso che si concedono i cechi. Per capirlo basta andare a Valdice, nella Moravia meridionale, tra le colline ricamate dai vigneti (si producono ottimi bianchi) e centinaia di castelli di epoca asburgica. Al confine con l'Austria da qualche anno c'è il Museo della Cortina di ferro, all'interno degli edifici che fino al 1989 ospitavano i militari incaricati di assicurare l'assoluta impenetrabilità della «cortina». Documenti, armi e apparecchiature originali, gli uffici e le celle dove veniva rinchiuso chi provava a fuggire, o anche chi solo si avvicinava in maniera sospetta al confine. Il museo offre anche una bizzarra esperienza: «Una notte in prigione. Riceverete un lenzuolo e una scodella per il rancio, una foto segnaletica e un interrogatorio sono inclusi nel biglietto. Dopo la notte sullo scomoda cuccetta avrete la colazione del prigioniero e infine potrete lasciare una scritta sul muro della cella». Le storie di chi ha tentato di fuggire verso la libertà sembrano prese da una sceneggiatura hollywoodiana. Il deltaplano artigianale costruito da due ventenni, Josef Kutra e Jirí Jedlicka, tentativo finito tragicamente: morto il primo, in prigione il secondo. L'incredibile fuga (riuscita) nel 1986 di Robert Ospald sui cavi elettrici tra la Cecoslovacchia e Austria, con una rudimentale sedia agganciata ai fili (oggi conservata al Memoriale del Muro di Berlino), e poi Libor Veselský, l'«uomo rana», che in una notte del giugno 1987 ha attraversato il confine sotto l'acqua del fiume Thaya, con una muta da sommozzatore, una bombola d'aria e un tronco d'albero sotto cui nascondersi, in apnea nel punto controllato a vista dai poliziotti addestrati a sparare alla minima bolla d'aria sospetta nel fiume. E altre decine di storie come la loro.

Si diceva dei castelli: la Repubblica Ceca è il paese con la più alta concentrazione al mondo, circa duemila. Anche queste fortezze della nobiltà boema e asburgica raccontano un altro pezzo del periodo comunista. Con l'arrivo dei comunisti al potere le proprietà delle famiglie nobili, considerati «nemici del popolo», sono state confiscate. Molti castelli, dopo la fine del comunismo, sono stati restituiti ai legittimi proprietari, ma non tutti. Il castello della famiglia dei Lichtenstein, ad esempio, una maestosa reggia in stile neogotico nella Moravia meridionale, è tuttora oggetto di un contenzioso tra la Repubblica ceca e il principato del Lichtenstein (stessa famiglia), che rivendica la restituzione del vasto possedimento. Più a nord, nella Boemia centrale, a un'ora di macchina da Praga, c'è il castello della famiglia ternberk, antica aristocrazia boema. Fu confiscato dallo Stato cecoslovacco nel 1949. «Arrivò una delegazione di burocrati da Praga - racconta Kateina Reháková, curatrice del museo -, e siccome il castello doveva diventare un museo per il popolo, comunicarono al proprietario la loro decisione: avrebbe fatto lui da custode e guida turistica». Suo figlio Zdeneck, invece, fu mandato nelle miniere di Karvina, al confine con la Slesia. Fuggito in Austria dopo l'invasione sovietica di Praga nel '68, il vecchio Zdenk è tornato nel castello di famiglia, dove vive tuttora, circondato dai ricordi.

Il viaggio nelle rovine del comunismo cecoslovacco può terminare a Zlin, la città di Tomas Bata, geniale e visionario imprenditore che tra le due guerre creò un impero calzaturiero (oggi una multinazionale presente in cento paesi del mondo), importando dagli Usa il modello della fabbrica fordista. Le case, la scuola, l'ospedale, i negozi per i dipendenti, in una città-azienda che sembrava realizzare i sogni degli utopisti ottocenteschi. Tutto confiscato e nazionalizzato dai comunisti nel '48 (Tomas Jan Bata, figlio del fondatore, tornerà in patria solo nel 1990, acclamato come un eroe popolare). Il modello della fabbrica dal volto umano era troppo raffinato per poter essere distrutto dai comunisti, e infatti l'azienda è andata avanti come se nulla fosse.

Un caso non frequente.

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