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"Per papà ero come Cocco Bill: ogni sera una camomilla"

La figlia: "Lui e il suo personaggio erano pigri e ansiosi. La politica? Non lo appassionava, gli piaceva la gente comune e non il potere"

"Per papà ero come Cocco Bill: ogni sera una camomilla"

Lui che la mattina si ritrova nel letto con un'accetta piantata in testa, e dice alla moglie: «Tu non mi ami più...una volta mi svegliavi con un bacio...».

Il grande piede che spunta da una carrozzina per neonato, con la mamma che fa: «Adesso ti porto piediatria!».

Un signore si rivolge a un bue: «...t'amo o pio bove», e il bovino risponde: «Ma va là, depravato!».

Le vignette sbocciano nello sterminato giardino surreale di Benito Jacovitti, che Oreste Del Buono definì «il più grande fumettista del '900». Peccato però che lo stesso Del Buono, quand'era direttore del sinistroso Linus, non difese «Jac» dall'attacco della redazione rossa che imputava al cartoonist fuori dal coro (e dal nome ducesco) una battuta «scorretta» contro il Movimento studentesco del '68: «Raglia, raglia la giovane Itaglia».

Una ingenuità immaginifica, quella di Jacovitti, che sapeva anche graffiare; come ebbero modo di verificare sia il cattolico Vittorioso, sia il confindustriale Giorno di Enrico Mattei. Al Vittorioso il direttore fu costretto a bloccare le rotative perché in una tavola Jacovitti aveva disegnato un angelo sessualmente superdotato, mentre al Giorno c'era un apposito «revisore» addetto a controllare eventuali doppisensi sul'Eni.

Jacovitti da Termoli, classe 1923, un «prof» della matita che però non si è mai sentito un professore di nulla («Nel mio caso prof è solo l'abbreviazione di profilattico»). Ma in una disciplina Jac è stato davvero un docente, anzi un magnifico rettore: l'autoironia. A 20 anni dalla morte e a 60 dalla nascita del suo più celebre personaggio (il mitico Cocco Bill) gli italiani stanno riscoprendo la contemporaneità di questo «anarchico liberale» che nella sua esistenza ha sempre amato tutto, eccetto la parola «censura».

Per difendersi da chi ha provato a domare il Trottalemme (nome del cavallo di Cocco Bill) che galoppava in lui, Jacovitti ha pagato dei costi altissimi. Ma non si è mai fatto imbrigliare. E se oggi in migliaia fanno la fila in edicola per comprare le riedizioni dei suoi albi, probabilmente aveva ragione lui.

A Roma c'è una casa-museo, curata con jacovittesca dedizione da Edgardo Colabelli, sempre pronto a integrare con nuovi cimeli questa sorta di wonderland alla Lewis Carrol.

«Ogni volta che vengo qui mi sembra di fare un tuffo nel passato - ricorda Silvia, figlia prediletta («Anche perché è l'unica», avrebbe forse celiato Jac) del grande autore molisano -. Rivivo la mia infanzia. Con la gioia di rivedere papà nel suo studio. Una stanza che racchiudeva un intero universo, fatto di giochi e genialità. Un luna park della creatività dove, in una grande bacheca non mancavano mai pistole e fucili come i un film western di Sergio Leone».

Com'era suo padre?

«Un fratello straordinario».

Cioè?

«Non l'ho mai visto come un padre. Né lui si è mai comportato come tale».

Divertimento assicurato?

«Era sempre pronto a farmi gli scherzi più incredibili».

Ne racconti uno.

«Ero piccola. E lui mi chiudeva al buio nello stanzino di casa. Mi liberava solo quando cominciavo a piangere».

Più che uno scherzo, una cattiveria degna di Elviro il Vampiro anti-eroe ben noto ai cultori di Jacovitti.

«Ma no. Papà era la persona più dolce e affettuosa del mondo. Da lui non ho mai ricevuto un rimprovero. Quando lo aiutavo a colorare mi dava pure la paghetta».

Cosa la faceva più ridere?

«Quando si vestiva da cowboy e si metteva la pistole nella fondina, preparandosi per il duello».

Quale duello?

«Quello che faceva regolarmente in strada, sfidando un suo collega, anche lui agghindato da cowboy e armato di colt».

Mezzogiorno di fuoco.

«Vinceva il più veloce a sfilare la pistola».

E il perdente che faceva? Moriva?

«No, si rialzava. E pagava un supplì al sopravvissuto».

Quanto c'è di papà Benito nel personaggio di Cocco Bill?

«Erano accomunati da una pigrizia iperattiva. E dalla voglia di sorprendere».

Un esempio?

«Davanti al cancello della nostra villa al mare papà aveva affisso un cartello con su scritto Attenti al dromedario».

Attenti al dromedario?

«La gente passava e si fermava incuriosita. Lui, da dietro il cancello, faceva i versi più improbabili».

E le persone come reagivano?

«Fuggivano impaurite».

Suo padre, politicamente, è stato spesso tirato per la giacca - anzi, per la matita - sia da destra che da sinistra. In realtà Jacovitti si definiva un «estremista di centro».

«Non è mai stato appassionato di politica. A interessarlo era la gente comune, non gli uomini di potere».

A Termoli, la città natale di suo padre, il liceo artistico è intitolato a «Benito Jacovitti»

«È una grande soddisfazione. Così come è un onore che nel dicembre del 1994 il presidente della Repubblica Scalfaro, gli abbia conferito il titolo di Cavaliere Ordine al merito della Repubblica italiana».

C'è pure un Jacovitti Fan Club.

«Ne fanno parte anche Sergio Zavoli e Vittorio Sgarbi».

Benito, c'è un segreto dietro quel nome?

«Nessun segreto. Mio nonno era fascista. Papà era un uomo di pace, forse anche per questo ha sofferto tantissimo la guerra. Povertà e sofferenza se li è sempre portati dietro. Anche quando il conflitto era finito».

Ma i suoi conflitti interni non sono mai terminati.

«Era perennemente ansioso. Forse la camomilla che nelle sue storie faceva sempre bere a Cocco Bill voleva rappresentare un calmante a tanta agitazione».

Ma papà l'ha mai bevuta una camomilla?

«Credo di no. Lui preferiva, da vero cowboy, il whiskey. In compenso la camomilla l'ho bevuta io ogni sera fino al compimento dei 10 anni».

E perché?

«Anch'io, come papà, ero sempre tesa. Il rito serale della camomilla bollente è tra i ricordi più brutti della mia infanzia».

Perché Jacovitti si firmava con la lisca di pesce?

«Quando giovanissimo iniziò a disegnare era magro, appunto, come una lisca di pesce».

Il consenso del grande pubblico arrivò sul settimanale Il Vittorioso.

«Una collaborazione trentennale, dal 1940 al 1969. Ma non mancarono i momenti di frizione».

Sparsi tra le pagine si notavano a terra anche salumi, serpenti, dadi, pettini e lumaconi con la sigaretta.

«Papà li disegnava quando la vignetta era ancora vuota, in attesa che l'ispirazione desse poi forma alla storia vera e propria».

Per Il Giorno creò tre formidabili personaggi romani: Tizio, Caio e Sempronio, che si esprimevano in una esilarante lingua pseudo-latina.

«Una scelta che dimostra come fosse lontano da qualsiasi forma di intellettualismo, anche se - quando voleva - sapeva essere estremamente raffinato».

Per Il Giorno dei Ragazzi dette vita invece alla saga di Tom Ficcanaso, reporter investigatore».

«Tom Ficcanaso, curioso e appassionato del suo lavoro. Una sorta di alter ego giornalistico».

La maggior parte dei personaggi jacovittiani hanno nomi irresistibili: Gamba di Quaglia, Jack Mandolino, Chicchirino, Microciccio Spaccavento, Joe Balordo, Tarallino, Pop Corn, Lolita Dolcevita, Baby Tarallo, ecc.

«In ognuno di loro c'è una scheggia dello spirito satirico- grottesco di papà»

Ma il più popolare resta lui: Cocco Bill che esordì il 28 marzo 1957 su Il Giorno dei Ragazzi.

«Un omaggio all'epopea del Far West di cui papà andava pazzo».

Si cimentò anche con la pubblicità.

«Famosi i caroselli con Cocco Bill per i gelati Eldorado, quelli di Zorro Kid per l'olio Teodora e, prima di tutti, quelli di Pecor Bill per la Lanerossi Vicenza».

Erano i tempi in cui disegnava anche per Il Travaso delle idee insieme a Federico Fellini.

«Di Fellini era grande amico. Dovette sospendere la collaborazione per le resistenze da parte dell'editrice del Vittorioso. Ma poi riprese con lo pseudonimo di "Franz"»

C'è chi ha definito Jacovitti il «Montanelli dei fumetti».

«Mio padre stimava Montanelli e la sua autonomia di giudizio».

Con lui scrisse negli anni '60 una delle tante edizioni del Diario Vit.

«Già, i Diari Vit, un altro successo clamoroso. Dicono che complessivamente abbiano venduto in Italia 100 milioni di copie. Un record secondo solo al libro della Bibbia».

Anche lei andava a scuola col Diario Vit?

«Certo. E ho sempre letto anche tutti i giornali su cui papà pubblicava le sue vignette».

I disegni erotici-umoristiche su Playman e la versione sexy del Kamasutra non l'hanno mai imbarazzata?

«Ma scherza? Negli anni '70 vivevamo in piena epoca di libertà sessuale. Io stessa ero una figlia dei fiori della generazione hippy. Anche se...»

Anche se?

«Mia madre qualche volte arrossiva. Ma era proprio a lei che papà faceva vedere per prima le tavole scandalose appena disegnate».

Si volevano un gran bene suo padre e sua madre.

«Si sono amati fino all'ultimo istante. Il giorno in cui papà morì, tornai a casa e trovai morta anche lei. Non aveva retto alla notizia che il marito non c'era più».

Ha perso entrambi i genitori nello stesso giorno. Un'esperienza terribile.

«Ma anche un insegnamento bellissimo. Mamma e papà mi hanno insegnato, con il loro esempio, il senso più profondo della parola amore».

Amore di cui ci sarebbe tanto bisogno.

«Ma che nelle nostre vite impazzite è ormai un sentimento in via d'estinzione».

Rimpianti nei confronti di suo padre?

«Le tante domanda che non gli ho rivolto».

È lo stesso rimpianto che hanno tutte le figlie quando perdono il padre.

«Ha ragione».

Le è rimasta nel cuore un gesto particolare?

«Sì. È legato a una dedica».

Quale dedica?

«Quella che mi fece sul primo volume della raccolta di Pinocchio che aveva appena finito i disegnare».

Se posso chiederglielo, cosa le scrisse?

«A Silvia, la mia piccola fata Turchina. Il tuo babbo. Ogni volta che la rileggo, mi commuovo. E pensi che ho rischiato di perderla».

Come mai?

«Papà un giorno vendette l'intera raccolta di Pinocchio, dove ovviamente c'era anche l'albo con la dedica».

E in che modo riuscì a riaverla?

«Accadde dopo la morte di mio padre. L'acquirente della raccolta si presentò da me dicendo che era disposto a rivendermela al prezzo di 150 milioni di lire».

E lei?

«Non avevo tutto quel denaro. Allora gli chiesi, per favore, di vendermi soltanto il volume con la dedica. La risposta fu: No, o tutto o niente».

E allora come fece?

«Un caro amico di famiglia comprò da quel signore una serie di disegni di mio padre, ma pose come patto che gli fosse venduto anche quell'albo di Pinocchio con la dedica. E così l'affare si concluse».

E lei riebbe la sua amata dedica.

«Fu il giorno più bello della mia vita».

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