Cronaca locale

«Papà Giovanni Borghi, Mister Ignis per destino e “cumenda” per sport»

Per spiegare che uno negli affari è un caimano, di solito si dice che sarebbe capace di vendere ghiaccio agli eschimesi. Giovanni Borghi vendeva frigoriferi in Scandinavia, e questo potrebbe bastare a dare un’idea di che tipo fosse. «In realtà mio padre ha fatto di peggio. Ha venduto frigoriferi dove i frigoriferi sono nati: negli Stati Uniti. Ai tempi d’oro, solo in America piazzava 350mila “pezzi” l’anno». Ai tempi d’oro significa tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando la fabbrichetta del sciur Borghi - che all’epoca l’Italia e il mondo conoscevano come “Mister Ignis” - sfornava elettrodomestici al ritmo di uno ogni otto secondi di lavoro, aveva un fatturato annuo di 40 miliardi (di allora), diecimila operai, esportazioni in 80 Paesi, stabilimenti da Varese al Sudamerica... «Diciamo che papà era un uomo famoso: lo conoscevano anche in Giappone, cosa peraltro che mi ha aperto molte porte nel mio lavoro». Il lavoro di Guido Borghi, sessant’anni, è diviso tra lo spettacolo e lo sport - presidente della casa di produzione cinematografica MovieMagic, è ai vertici del gruppo che gestisce gli ippodromi di Varese e di Roma - così come la vita è divisa tra Varese («Otto mesi l’anno») e Los Angeles («Quattro mesi, a lavorare e far studiare le figlie»). Il padre gli ha insegnato tante cose, sulla vita e sul lavoro, ma una in particolare: «La spregiudicatezza non porta lontano, né nella vita né nel lavoro».
Giovanni Borghi era un tipo tutto casa e bottega, burbero ma dal cuore grande così, attaccato all’azienda, fortunato, geniale («Un talento assoluto per il marketing») ma non spregiudicato. «Credeva moltissimo nel lavoro, ha fatto l'azienda con le sue mani, un uomo di grande coraggio e di grande fantasia, uno che ha inventato per primo al mondo il frigorifero a doppia porta con il freezer, il primo a inventare la lavatrice con la carica dall’alto, il primo a fabbricare la macchina per fare il ghiaccio, il primo a...».
Il primo a capire che l’Italia stava cambiando, e gli italiani anche. Erano gli anni del miracolo economico: nuova vita, nuovi bisogni, nuovi prodotti. Giovanni Borghi ne pensò una vasta gamma, settore elettrodomestici.
«Tutto iniziò al quartiere Isola, dove nacque papà e dove il nonno aveva una bottega di elettricista, in piazza Minniti, che nel ’43 fu spazzata via dai bombardamenti. A quel punto la famiglia sfollò a Comerio, vicino a Varese, dove c’era la casa di campagna. Papà aveva 33 anni». Fu lì che Giovanni Borghi, partito dall’Isola con un ferro da stiro in mano e un po’ di esperienza in tasca, si mise a comprare vecchi fornelli elettrici, a ripararli, modificarli, rivenderli. Fu lì che pensò di trasformare le cucine a legna in cucine elettriche, sempre più perfezionate. Fu lì che aprì il primo stabilimento. Lì che nel giro di qualche anno la “Guido Borghi e figli” diventò la Ignis, il marchio che segnò a fuoco l’industria italiana degli elettrodomestici. Si dice che il nome a Giovanni Borghi lo suggerì un suo vecchio cliente, che evidentemente ne sapeva di latino. Il Giuan, che ne sapeva soprattutto di dialetto, disse solo: “Me pias”.
«Papà era un autodidatta. È andato a scuola fino a dieci anni, giusto il tempo delle elementari, poi iniziò a lavorare. Fino a dodici-quattordici ore al giorno, un ritmo che ha tenuto per tutta la vita. Anche quando era già il re dei frigoriferi, o Mister Ignis, come lo chiamavano tutti, alle 9 del mattino, pure se era andato a letto alle cinque, era già dietro alla scrivania, e dopo era l’ultimo a uscire. E non c’era giorno che non passasse negli stabilimenti a fare un giro tra gli operai. Vede, non ci crederà ma mio padre era indifferente al successo, l’importante per lui era il rapporto con i suoi dipendenti, è per questo che era molto amato. Perché era sempre presente alle loro necessità. I sindacati avevano difficoltà, anche negli anni Sessanta, a entrare in fabbrica: gli operai si compattavano attorno al padrone».
Meglio: attorno al Cumenda, come lo chiamavano tutti. Fino a che fu nominato Cavaliere del Lavoro. E decise di emanare una grida aziendale in 12 punti, il primo dei quali recitava: «Il Cav. del Lav. Giovanni Borghi che abitualmente viene chiamato Commendatore, a partire da ora, sia verbalmente, sia sulla corrispondenza, sia al telefono deve essere chiamato “Presidente”; si provveda pertanto affinché talune persone modifichino la loro abitudine a chiamare lo stesso Commenda, Giuan o altro».
Il Giuan, ormai, era entrato nella leggenda: primo sponsor del capitalismo «scarpe grosse e cervello fino», un po’ di paternalismo e tanto senso pratico, aveva fatto i miliardi, le ville, l’elicottero e la Rolls Royce. «No, guardi: papà era indifferente al denaro, non gli interessava, era uno capace di vendere prodotti a costi bassissimi, scavalcando le logiche di mercato, pur di portare un elettrodomestico in tutte le famiglie. Avrebbe potuto guadagnare molto ma molto di più, solo che i soldi non erano tutto per lui».
Per chi ce li ha, i soldi non sono mai tutto. E infatti per Giovanni Borghi c’erano anche - moderatamente - il gioco («La roulette: ma era un divertimento, non un’ossessione. Se ha più vinto o più perso? Se la gente vincesse, i casinò sarebbero tutti chiusi... però era abbastanza fortunato») e - smodatamente - lo sport. Basket, calcio, ciclismo, boxe, canottaggio, ippica, atletica. Giovanni Borghi, che quando usciva dall’azienda e scendeva in campo smetteva i panni del Cumenda e vestiva quelli del patron, mise in piedi una polisportiva («oggi si direbbe un team») che comprendeva squadre di pallacanestro («la valanga gialloblu della Ignis che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta vinse nove scudetti, quattro Coppe Italia, tre Coppe dei Campioni, tre Coppe Intercontinentali e una Coppa delle Coppe»), di calcio («portò il Varese in serie A»), di pugilato («tantissimi campioni, a partire da Duilio Loi») e di ciclismo («tra i suoi pupilli, Antonio Maspes, il pistard più forte di tutti i tempi, a cui fece da secondo padre; e poi lo spagnolo Miguel Poblet che vinse 23 tappe del Giro d’Italia, uno che ogni volta, prima di lanciare la volata, si girava verso papà che lo seguiva sull’ammiraglia e gli diceva: “Commendatore, si pettini che oggi andiamo in televisione...”»). Ancora oggi, anche ad Harvard nei corsi di marketing si studia che fu il milanese Giovanni Borghi il primo a usare la sponsorizzazione sportiva come (micidiale) arma pubblicitaria.
«Gli sport li amava tutti, ma gli atleti che amava di più erano i ciclisti e i pugili, quelli che facevano più sacrifici». Come li aveva fatti lui.
Dallo sport, oltre al valore del sacrificio, il Cumenda trasse anche una sua personale filosofia - “De Coubertin non lo conosco. Non mi basta partecipare. Io voglio vincere” - che applicò in tutti i campi della vita, anche nel business. Un giorno, in visita alla redazione del giornale francese L’Equipe, guardandosi in giro pare abbia detto: “Se la custa chi inscì la baracca? La compri mi”.
«Era impressionante come, pur conoscendo solo il dialetto, sapesse tessere un discorso in italiano affascinando tutti quelli che gli stavano attorno. Il suo grande rimpianto era di non sapere l’inglese. Diceva sempre: “Va bene tutti i traduttori del mondo, ma come glielo dico io è un’altra cosa...”. Sono sicuro che non avrebbe avuto difficoltà a fare anche politica. Eppure non entrò mai nelle stanze dei bottoni, perché sapeva che poteva farcela da solo».
Ce la fece a lungo, ma non all’infinito. Negli anni Settanta, in parte per la crisi economica in parte per le crisi cardiache, Giovanni Borghi fu costretto a vendere il suo impero agli olandesi della Philips: «Non fu una scelta facile, anzi. Se all’epoca io avessi avuto quattro-cinque anni in più, avrei combattuto per fargli cambiare idea. Vendere fu un errore. Oggi la Whirlpool, che alla fine assorbì tutto, è la Ignis di allora. Per papà fu un’enorme sofferenza, che lo accompagnò fino alla morte».
Il Commendatore, ingegnere honoris causa, Cavaliere del Lavoro, Ambrogino d’Oro, et coetera et coetera Giovanni Borghi morì nel settembre del 1975. «Abbiamo bisogno di buoni esempi» scrisse, nella prefazione alla biografia di “Mister Ignis” uscita qualche anno fa, uno che il Giuan lo conosceva bene, uno che veniva anche lui dall’Isola e che aveva frequentato anche lui l’oratorio di Sant’Antonio, la chiesa di via Sebenico, l’istituto dei Salesiani.

Uno che in tante cose ha seguito quell’esempio, firmato Silvio Berlusconi.

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