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Un paradiso delle feste creato per stupire

In uno spot pubblicitario, la bella Vanessa Incontrada rinfaccia al suo partner, il clone di un magnate megalomane, di tenere in villa un giardino tanto vasto da giocarci a risiko, ma con pezzi a scala naturale. Ironia esagerata. Non sarebbe stata tale per l'imperatore Nerone (37-68 d.C.), che tra le tante passionacce aveva quella dei wargames in 3-D, realistici. Nella sua villa di Anzio (la prediletta, era il suo paese nativo), aveva fatto scavare un bacino artificiale, colmato con l'acqua dell'Aniene. E lì si divertiva a manovrare galee da combattimento, offrendo agli ospiti una sceneggiata miliardaria.
L'idea non era nuova. Anche Cesare era un cultore di naumachie, «battaglie navali» che esibiva al Campo Marzio. Nerone, però, sapeva distinguersi. Lo spettacolo lo voleva nel suo salotto, tra scelti amici. Pare che potesse permettersi lo spasso anche nella Domus Aurea, la «Casa d'oro», la residenza di rappresentanza nella capitale. Al centro del complesso, c'era uno stagnum: non facciamoci ingannare, non era una modesta pozza. Svetonio - Vita di Nerone, cap. 31 - parla di un «mare», circondato da edifici che simulavano città costiere. Facile immaginare che anche lì gli ammiragli da operetta si sfidassero, sotto gli sguardi annoiati delle matrone.
Lo scorcio ci dà l'idea della vastità del complesso. Non era la «casa» dell'imperatore: l'indirizzo di Nerone era il Quirinale. Era una party villa, un eden dei festini e delle stravaganze, detta aurea perché una foglia d'oro ne rivestiva le mura, sul modello delle meraviglie orientali (piramidi dei faraoni, palazzi di Babilonia, regge di Persepoli). Vi si aprivano 300 stanze ma, a detta degli archeologi, nessuna era da letto. Mancavano anche le cucine: il catering imperiale faceva arrivare cibi pronti. Il poco che resta (e ne resterà ancora meno, visto che l'ingiuria dei secoli, l'attacco delle acque piovane e la disattenzione di chi dovrebbe proteggere le straordinarie reliquie stanno per affossare del tutto il capolavoro) permette di farci solo vaghe idee della planimetria generale.
Ma è la filosofia di fondo che ci colpisce. Nerone amava i contrasti bizzarri. Con la Domus Aurea volle rovesciare l'ovvietà, imbarazzare anche i più scafati aristocratici della città caput mundi. Costruì in piena Roma un’enorme villa di campagna. Lo fece in centro, a ridosso del foro, dove l'attività pubblica dei mercati e dei tribunali fermentava al calor bianco. Non aveva problemi di spazio. Le fiancate di quattro colli (Oppio, Esquilino, Celio, Palatino) gli mettevano a disposizione i cento ettari richiesti. Dove non poteva acquistare, espropriava.
La villa inglobava gli horti Maecenatis, i «giardini di Mecenate», favoloso parco privato appartenuto al primo ministro di Augusto, l'uomo più ricco e raffinato della sua era. A nord aleggiava lo schiamazzo plebeo della Suburra, ma la muraglia della Domus stagliava un confine tra i mondi. All'interno si godeva il paradiso bucolico, risuonavano i campanacci delle mandrie, si udivano i belati del gregge, i canti dei vignaioli intenti alla vendemmia. Nerone aveva rimodellato l'ambiente: Svetonio lo coglie con arguzia, quell'architetto con lo scettro aveva creato l'incanto della rus, la «campagna», nell'inferno congestionato dell'urbe.
Del resto, da sempre i potenti dell’antichità si divertivano a sovvertire l’ordine. Serse, il re dei persiani, aveva trasformato il mare in terra costruendo un enorme ponte di barche sull’Ellesponto e mutato la terra in mare scavando il canale del monte Athos. Poteva Nerone essere da meno di un monarca barbaro? L'incendio di Roma, 64 d. C., gli aveva dato una mano. La sua Domus Transitoria, la «casa provvisoria», era caduta in cenere insieme alle insulae, i casermoni del popolo, e lui aveva potuto stendere sul tavolo da disegno i nuovi, inebrianti progetti, con al fianco Severus e Celer, specialisti dell'edilizia. Stupire, ammaliare: un segreto del potere che Nerone maneggiava da maestro. Nella cenatio, l'immenso salone da pranzo, la volta a cupola ruotava lenta, scandendo tra le portate il tempo di un universo in miniatura. Da quel firmamento artificioso non grandinavano gocce di pioggia, ma petali di rosa, e profumi esotici. Il gossip chiacchierava di ospiti stroncati dall'allergia: il veleno della stampa avversa circonda sempre il premier.
Finché la stella neroniana si estinse nel caos della rivolta civile. I successori si affrettarono alla demolizione, alla damnatio memoriae. Traiano elevò le sue terme sull'area. Vespasiano aveva eretto il suo anfiteatro là dove ondeggiava il lago di Nerone. Ma non poté liberarsi del nome infame. La vox populi chiamò «Colosseo» la prodigiosa conchiglia di pietra. Non per la sua grandezza, ma perché lì svettava il Colossus Neronis, la statua da 30 metri che Nerone aveva innalzato a se stesso, nel vestibolo della Domus Aurea, in veste di Apollo-Sole.

Un biglietto da visita degno di lui.

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