Partito unico, ultima fermata a sinistra

Il ministro Bersani ha descritto così qualche tempo fa la ineluttabilità del Partito democratico: «Sarà come un treno in corsa, nessuno si butterà sui binari per arrestarlo». Il problema è che quel treno, e la direzione della corsa, convincono sempre meno. E c’è chi, avendovi già il posto prenotato, come è della sinistra Ds, ha deciso di scenderne. E c’è chi, invitato a salirvi, come i socialisti delle varie famiglie fin qui sparse, ha deciso di organizzarsi fuori dal Pd, e anzi contro.
L’abbandono della sinistra, un 15 per cento del «Correntone» di Mussi al quale potrebbe affiancarsi parte di quel 9 per cento dei «terzisti» di Angius può avere per il Pd, e per l’Unione, effetti negativi. I fuoriusciti annunciano una «nuova unità» a sinistra che finirà per indebolire l’area «riformista» così mal rappresentata dai Ds e dalla Margherita come ci hanno spiegato quei critici che per conto loro hanno deciso l’abbandono preventivo: da Nicola Rossi a Peppino Caldarola e Emanuele Macaluso. Si rafforzerà, invece, l’estremismo dell’ala radicale, che guarda con crescente interesse alle evoluzioni di Rifondazione. E ciò finirà per rendere più difficili gli equilibri della coalizione, e più ardua la mediazione sulla quale regge l’incerto equilibrio prodiano.
Poco si sa, fin qui, delle ripercussioni in campo sindacale, che pure ci sono e ci saranno. Nella Cgil di Epifani esiste già una componente di sinistra influentissima, che è quella dei Cremaschi, dei Sabattini, della Fiom. E un posto sempre più importante hanno assunto, nei quadri sindacali, quelli di Rifondazione. E ora, secondo fonti attendibili, nei congressi i sindacalisti che si sono schierati con Mussi sono più numerosi di quelli messi insieme nel partito. In ogni caso l’ingresso nel governo della sinistra ha già prodotto un risultato storicamente rilevante. Ai tempi del vecchio Pci la Cgil aveva i legami più stretti, si pensi a Luciano Lama, con la destra migliorista di Amendola, di Chiaromonte, di Napolitano. La residua influenza dei Ds sulla Cgil di Epifani si è andata riducendo in modo vistoso. Una cosa per il sindacato è stare all’opposizione, altra è stare al governo.
La lettura dei giornali amici si è fatta negli ultimi tempi, sul Pd, sempre più deprimente per i suoi apostoli. Non hanno avuto effetto, nel convincere i Mussi e gli Angius a restare, le lusinghe di Fassino, né i toni sprezzanti di D’Alema, che accusa i trasmigranti di dar vita a una «scissione fredda», attirandosi facili ironie per il carattere burocratico di una unificazione che ha deciso anche di fare a meno del famoso «manifesto» ideologico e programmatico appaltato ad alcuni intellettuali post-comunisti e post-Dc e prontamente ritirato dalla circolazione.
Il futuro è incerto per tutti, le prime mosse però non sono incoraggianti per Fassino. Il primo dei congressi di aprile è quello dei socialisti di Boselli, Zavattieri e Turci a Rimini, gli ospiti d’onore saranno da una parte Mussi e Macaluso, dall’altra i compagni di Rifondazione.
Sul versante della Margherita non va meglio. Cresce la sfiducia nell’ala più moderata: a esprimerla sono i Dini, i Fisichella, i Bordon. E a mettere le mani avanti interviene Parisi che non parteciperà ai congressi locali dominati dalle tessere inflazionate, come ai tempi delle «truppe cammellate» dorotee e demitiane. Confrontando la mobilitazione dell’apparato post-comunista fra i Ds, e le manovre in atto nella Margherita Parisi conclude che per la prima volta le correnti organizzate si sono costituite prima del partito. E non scherzano, quanto ad aggressività, come è il caso della disputa ai ferri corti fra i fans di Rutelli e quelli di Marini.
Il distacco di Parisi, infine, torna a riverberarsi nell’atteggiamento di Prodi che per il suo staff «non ha tempo di occuparsi del Pd». Nella realtà, ha tutte le ragioni di tenersi alla larga perché quel che succede gli restituisce una Unione ancora più divisa.
a.

gismondi@tin.it

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