Controcultura

Pasolini calciatore in trasferta a Londra dribblava Chaucer

Nel 1973 lo scrittore e regista era in Inghilterra per "I racconti di Canterbury". E nelle pause...

Pasolini calciatore in trasferta a Londra dribblava Chaucer

Immaginate Pier Paolo Pasolini che, inimitabile genio, tanto nella vita quanto nella provocazione artistica, si getta nella mischia di un'infuocata partita di football ad Hyde Park, isola verde del centro di Londra, e viene riconosciuto dai suoi casuali compagni di gioco dopo un italianissimo «vaffa» che smaschera l'intruso: cioè, lui stesso.

Siamo, forse, secondo la testimonianza di chi c'era, nella primavera o nell'estate del 1973. Nella splendida Londra che ancora risuona dei fasti dell'era dei Beatles, va in scena uno spettacolo di vita, che ha come protagonista il poeta, scrittore e regista venuto probabilmente in Inghilterra, in quell'occasione, per lavorare alla supervisione del doppiaggio inglese della sua ultima opera per il cinema, I racconti di Canterbury, che in Italia è sottoposta a ripetuti sequestri per l'accusa di oscenità e riceve le stroncature della critica internazionale.

Il viaggio in Gran Bretagna verrebbe così a coincidere con la fase conclusiva di una lunga operazione che ha visto, dapprima, Pasolini tradurre in italiano intriso di gergo popolaresco la traslitterazione in inglese moderno dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, e poi ripartire dai testi in italiano contemporaneo per «doppiarli» in un codice ancora diverso, il linguaggio parlato, pieno di slang, dei britannici al pub. Di qui la sua autorizzazione finale alla laboriosa versione inglese dell'opera: quasi una seconda firma d'autore, a documentazione dello sforzo di fantasiosa reinterpretazione di Chaucer, radicalmente attualizzato anche dal punto di vista del lessico. A raffreddare la febbrile fucina creativa, arrivano le provvidenziali partite di calcio, come ci svela un testimone di quelle felici scorribande, Giuseppe («Peppo») Noseda, classe 1938, che incontro a Civiglio, verdeggiante quartiere collinare di Como.

Ecco il suo inedito racconto: «Quando vissi in Gran Bretagna, nei primi anni Settanta, con un folto gruppo di amici italiani e di varie altre nazionalità - rammento specialmente i tedeschi - ero solito prendere parte, il mercoledì sera, a partite di pallone che si svolgevano, dopo l'uscita dal lavoro, vicino al nostro ufficio di Londra, ad Hyde Park. Un giorno, alcuni di noi giunsero tardi all'appuntamento, e potemmo constatare che si erano già uniti alle squadre due italiani che non avevamo mai visto prima, uno giovane e uno più anziano. Entrammo anche noi in campo e, durante il gioco, in un momento clou, ci scappò un vaffa che suscitò l'ilarità del più vecchio dei due sconosciuti, il quale evidentemente conosceva la nostra lingua. A quel punto, dopo aver ben fissato il soggetto, chiesi al mio amico Antonio Belloni: Secondo te, quello lì non è Pasolini?. Belloni, un ragazzo milanese molto simpatico, risolse subito il dubbio, perché gli si rivolse direttamente, in tono scanzonato: Ma tu sei il Pasolo?. E il letterato confermò: Sì, sono io».

PPP, alias Pasolo, dedicò l'intera vita all'altra passione preferita, che formava un singolare connubio con eros e poesia: il calcio, di cui era tifoso (la sua squadra del cuore era il Bologna), ma anche cultore a livello atletico. Frequentava gli stadi, spesso insieme a Giorgio Bassani o a Mario Soldati, ma le sue incursioni nel vissuto del calcio di strada, restano leggendarie. Prediligeva i campetti di periferia, e alcune famose immagini lo ritraggono mentre, vestito di tutto punto, in giacca e cravatta, è alle prese con un pallone, noncurante di impolverarsi e di sudare.

Una volta, ebbe a definire il football «l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo»: «È - aggiungeva - rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazione sacre, perfino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». Intervistato da Enzo Biagi, si disse compiaciuto di poter immaginare se stesso come «un bravo calciatore», se la letteratura e il cinema non avessero avuto il sopravvento su di lui, in modo divorante. In un celebre articolo, uscito sul Giorno il 3 gennaio 1971, codificò la sintassi del calcio, distinta nelle sue forme di estro poetico e di tecnica prosaica. Un poco invidioso dei dribblatori brasiliani, dei capocannonieri, ma soprattutto di Gigi Riva e di Sandro Mazzola, definito «un elzevirista che potrebbe scrivere sul Corriere della Sera».

L'exploit londinese non si limitò a una sparuta partitella, a una comparsa straordinaria. Noseda - ed è questo l'aspetto più straordinario dell'aneddoto - ci svela che Pasolini prese molto sul serio l'impegno con l'assortito gruppo di Hyde Park. «Da quella volta - continua Peppo - lo scrittore e cineasta divenne un assiduo dei nostri appuntamenti calcistici. Ci disse che era venuto a stare un mese in Inghilterra, per il suo film I racconti di Canterbury. Credo di ricordare che avesse partecipato a quattro dei nostri incontri sportivi del mercoledì. Arrivava sempre puntuale, in maglietta, pantaloncini e scarpette da football. In azione non era niente male. Era un bravo attaccante di fascia sinistra. A un ulteriore appuntamento, già fissato, però Pasolini non si presentò, perché a Londra quella sera diluviava. Noi, per rispetto nei suoi riguardi, andammo comunque a controllare se per caso non fosse giunto ugualmente ad attenderci ad Hyde Park, ma non ve lo trovammo. Fu un peccato, perché, al termine del match, era stata già organizzata una cena in suo onore».

Qual è il ricordo che le resta, dell'uomo Pasolini? «Debbo dire che era una persona di enorme sensibilità, sempre molto gentile, con un atteggiamento grazioso, che non gli faceva per nulla dispensare dall'alto la sua enorme levatura culturale. Mi rammarico di non averlo mai più potuto ricontrare, dopo essere tornato in Italia, alla fine del 1974. Quando poi appresi delle modalità atroci del suo brutale assassinio, ne rimasi estremamente colpito.

Avevo infatti ricavato l'impressione che, dietro quell'intellettuale, di così grande notorietà, si celasse un uomo indifeso e vulnerabile».

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