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Un Pasolini vate incompreso e «romanesco»
Laura Novelli
La prima parte è colloquiale, diretta, fortemente intellettuale. La seconda fisica, visionaria, eccessiva. Quasi a voler accostare le due anime più vitali e ribelli di Pier Paolo Pasolini. Quasi a volersi misurare con una prova dattore che sia miscela di parola e corpo profetici: nudi, sinceri e disarmanti come icone senza tempo. Già passato per Roma la scorsa stagione, arriva al Valle da questa sera (in replica fino a domenica) 'Na specie di cadavere lunghissimo di e con Fabrizio Gifuni, monologo nato allinterno del progetto «Petrolio» di Mario Martone che ormai da tempo si è distaccato dal suo prolifico «genitore» per girare con successo la Penisola e imporsi come un evento del tutto particolare, anche in seno alle tante iniziative promosse per ricordare lo scrittore di Casarsa a trentanni dalla morte. Evento particolare innanzitutto per la potenza scenica che il bravo attore - diretto con estro da Giuseppe Bertolucci e capace, come sempre, di donarsi con estrema generosità - riesce a riversare in questo spartito di proclami e accuse, critiche e analisi, scempi e sfoghi attinti ora a opere emblematiche quali le «Lettere luterane» e gli «Scritti corsari», ora a un poema in dialetto romanesco nel quale Giorgio Somalvico rievoca la tragica scomparsa di Pasolini per bocca di Pino Pelosi. Tra i due momenti dello spettacolo cè un diaframma chiaro e incontrovertibile: un Gifuni/Pasolini prima dimesso e «didattico» (mescolato tra il pubblico e rivolto direttamente alla platea) indossa un elegante abito bianco davanti allo specchio di un camerino e inizia la sua progressiva discesa agli inferi. Se prima di questa vestizione simbolica (destinata a capovolgersi in una, altrettanto simbolica, spoliazione), ci sentivamo chiamati in causa a riflette sui mali del neocapitalismo e della società di massa, da adesso in poi linterprete rivive su di sé il cupo epilogo di una vicenda umana - e culturale - che trova nellaggressivo romanesco di Pelosi la sua voce «contro», la sua paradossale - ma necessaria - stonatura. Non solo per il mistero che ancora avvolge quella tragica morte. Non solo per la condanna morale che ancora pesa su certi comportamenti sessuali. Ma perché - e questo lavoro ne è in fondo una raffinata dimostrazione - il legame tra Pasolini e il suo omicidio è un legame che ancora oggi tiene uniti i pensieri, gli scritti e i corpi che ne sono stati, in qualche modo, preludio ed espressione.
La prima parte è colloquiale, diretta, fortemente intellettuale. La seconda fisica, visionaria, eccessiva. Quasi a voler accostare le due anime più vitali e ribelli di Pier Paolo Pasolini. Quasi a volersi misurare con una prova dattore che sia miscela di parola e corpo profetici: nudi, sinceri e disarmanti come icone senza tempo. Già passato per Roma la scorsa stagione, arriva al Valle da questa sera (in replica fino a domenica) 'Na specie di cadavere lunghissimo di e con Fabrizio Gifuni, monologo nato allinterno del progetto «Petrolio» di Mario Martone che ormai da tempo si è distaccato dal suo prolifico «genitore» per girare con successo la Penisola e imporsi come un evento del tutto particolare, anche in seno alle tante iniziative promosse per ricordare lo scrittore di Casarsa a trentanni dalla morte. Evento particolare innanzitutto per la potenza scenica che il bravo attore - diretto con estro da Giuseppe Bertolucci e capace, come sempre, di donarsi con estrema generosità - riesce a riversare in questo spartito di proclami e accuse, critiche e analisi, scempi e sfoghi attinti ora a opere emblematiche quali le «Lettere luterane» e gli «Scritti corsari», ora a un poema in dialetto romanesco nel quale Giorgio Somalvico rievoca la tragica scomparsa di Pasolini per bocca di Pino Pelosi. Tra i due momenti dello spettacolo cè un diaframma chiaro e incontrovertibile: un Gifuni/Pasolini prima dimesso e «didattico» (mescolato tra il pubblico e rivolto direttamente alla platea) indossa un elegante abito bianco davanti allo specchio di un camerino e inizia la sua progressiva discesa agli inferi. Se prima di questa vestizione simbolica (destinata a capovolgersi in una, altrettanto simbolica, spoliazione), ci sentivamo chiamati in causa a riflette sui mali del neocapitalismo e della società di massa, da adesso in poi linterprete rivive su di sé il cupo epilogo di una vicenda umana - e culturale - che trova nellaggressivo romanesco di Pelosi la sua voce «contro», la sua paradossale - ma necessaria - stonatura. Non solo per il mistero che ancora avvolge quella tragica morte. Non solo per la condanna morale che ancora pesa su certi comportamenti sessuali. Ma perché - e questo lavoro ne è in fondo una raffinata dimostrazione - il legame tra Pasolini e il suo omicidio è un legame che ancora oggi tiene uniti i pensieri, gli scritti e i corpi che ne sono stati, in qualche modo, preludio ed espressione.
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