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Pelé, l'ultima giocata. "Il mio erede è Messi"

E spiega con un passo della capoeira che il suo calcio è danza e lotta assieme, quasi una macumba. "Chi ci riesce adesso? Leo, Neymar, ma anche CR7"

Pelé, l'ultima giocata. "Il mio erede è Messi"

A volte l'inizio è nella fine. «Cara mamma, oggi ho fallito un calcio di rigore, era decisivo per la mia squadra. So tuttavia che non potrò mai essere un grande calciatore. Non sono fatto per questa carriera». Aveva quindici anni, stava in fondo ad una strada che non andava da nessuna parte con quel senso di incertezza che ci mette niente a farsi paura quando hai appena smesso di avere coraggio. Ma nella vita c'è sempre un contropiede che rovescia il tavolo.

Pelè oggi appoggia a una stampella il braccio sinistro e si fa sistemare la cravatta dalla compagna. Vive da più di 30 anni senza il rene sinistro, l'anca l'ha operata da quattro mesi, ma il sorriso è sempre quello di Dico come lo chiamavano da bambino nella favela di Bauru. Pelè, il bisillabo più famoso del mondo, lo è diventato per sbaglio: era il nome storpiato di Bilè il portiere del Vasco, gli bastò dirlo imperfetto per farsi prendere in giro dai ragazzi della strada, gli è rimasto appiccicato addosso per la vita come il numero 10. Quel nomignolo disse un giorno di averlo sempre odiato, eppure «se il calcio non si fosse chiamato così, avrebbe dovuto chiamarsi Pelè», parole e musica di Jorge Amado, e lui, Edson Arantes do Nascimento, ancora oggi a 76 anni e decine di campioni dopo, è mito senza tempo e global come mai, l'unico che ha vinto tre mondiali, segnato 1279 gol, e che, le hanno contate, è stato accolto in 88 Paesi e ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e tre Papi. «Sono famoso più di Gesù Cristo» si lasciò scappare narciso, per non sbagliare Baurù gli ha dedicato una statua come al Cristo Redentore: c'è chi dice di essere guarito toccandola. Per i brasiliani Pelè è la prova dell'immortalità. A Milano mancava da Italia 90, presenta il film che porta il suo nome, in uscita oggi nelle sale italiane, farà un salto allo show di Bocelli e Zanetti, lo aspettano alla finale di Champions. Spiega, posando in un angolo la stampella, che il suo calcio, cioè la sua vita, sta tutto nella ginga che è il passo base della capoeira, un'arte marziale che gli schiavi africani si inventarono, deportati in Brasile dai portoghesi. Lotta e danza insieme che si fanno futebol, quasi come una macumba. «È difficile dire cos'è - si fa ispirato - la ginga è qualcosa di unico che sta dentro di te, passa dal talento, ma anche dagli sguardi che ti scambi con i compagni, è come musica. Quando vai allo stadio, se c'è ginga, non vedi solo una partita ma uno spettacolo di artisti». Dei calciatori di oggi uno ha di sicuro il virus della ginga: «Messi è il mio preferito, anche se ha uno stile completamente diverso da quello di Cristiano Ronaldo. Poi c'è Neymar». Ma sono sempre più rari: «Ci sono tanti campioni ma è difficile tirare fuori il talento quando giochi con squadre così chiuse». Approfitta del film, che comincia dalla favela per finire ai mondiali svedesi, per fare i conti con i propri amori e le proprie passioni: «Avevo 17 anni, ero matto. Quando siamo arrivati in Svezia pensavo che tutti ci conoscessero invece di noi non fregava niente a nessuno. I giornalisti mi dicevano: ah, tu sei Pelè? Sei argentino o uruguaiano? Dopo quel mondiale hanno capito chi siamo noi brasiliani. E soprattutto chi ero io».

Ma non è quello, il mondiale vinto a 17 anni, il mondiale della vita: «Quello è stato la finale del 1970 in Messico con l'Italia. Sapevo che sarebbe stato il mio ultimo Mondiale». Quello perso in Brasile invece ce l'ha ancora qui: «Avevo 10 anni quando vidi mio padre piangere per la sconfitta del Brasile in finale con l'Uruguay. Due anni fa è toccato a mio figlio veder piangere me per il 7-1 che abbiamo preso dalla Germania. Abbiamo vinto cinque mondiali ma quando li abbiamo organizzati noi sono stati due catastrofi. Non so dirvi perchè». Esagera, forse, solo quando dice che il suo gol più bello, quattro sombreri di fila, lo ha fatto alla Juventus, ma di San Paolo, non di Torino, spiega che anche il suo il film ha un messaggio «che tutti ce la possono fare anche partendo dalla strada, anche dove sembra non esserci speranza» messaggio che suona persino rivoluzionario in questi tempi da social rancorosi e depressi. Un seguito? «Perché no? Sono ancora giovane...».

Ci vuole tempo per tirare fuori felicità dalla vita.

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