Cultura e Spettacoli

"Il vero eroe? È come Ulisse: ha paura, ma non si piega"

Scrittore e archeologo, con i suoi romanzi ambientati nell'antichità ha venduto 14 milioni di copie nel mondo. "L'Odissea è un capolavoro immortale. C'è già tutto Dopo non abbiamo più inventato molto"

"Il vero eroe? È come Ulisse: ha paura, ma non si piega"

Ti aspetti di vederlo curvare a bordo di una jeep, magari coperta di polvere. Invece Valerio Massimo Manfredi guida una Maserati ed è così che dalla stazione di Castelfranco Emilia arriviamo a Piumazzo, fra Modena e Bologna, casa sua. «Ho cambiato casa tre volte, ma ho sempre abitato qui». Niente rovine romane, niente templi greci: una villa in mezzo alla campagna è dove vive e lavora uno degli scrittori italiani più venduti al mondo, che coi suoi romanzi ambientati nell'antichità (su tutti la trilogia di Aléxandros ) ha venduto milioni di copie. «Quattordici» precisa.

Senta, ma Valerio Massimo è proprio il suo nome?

«Sì. È quello di battesimo, anche se all'anagrafe c'è solo Valerio».

Un destino?

«No, mia madre era indecisa su quale scegliere. E me li ha dati entrambi».

E quando ha deciso di fare l'archeologo?

«Tardi, all'università. A Lettere classiche archeologia era un esame fondamentale, ed è stato lì che ho cominciato a frequentare gli scavi. Poi viaggiavo molto con gli amici, visitavamo posti straordinari, centri dell'antichità e di civiltà impressionanti».

Insomma, da bambino non sognava di fare l'archeologo?

«Non sapevo neanche che cosa fosse. Sono stato il secondo a laurearmi nel mio paese. Prima di me c'era stato solo Eugenio Calidori, un avvocato».

E che cosa sognava di fare?

«Volevo viaggiare, fare l'esploratore. Fra le medie e il ginnasio ho letto una quantità di libri d'avventura: tutto Verne, Salgari, Stevenson, Cooper».

Come è arrivato a essere il secondo laureato di Piumazzo?

«Per una serie di problemi familiari fui messo in collegio in quinta elementare, i miei venivano a trovarmi una domenica sì e una no: un trauma, ma anche una palestra di vita. Una scuola durissima. Poi passai al San Luigi a Bologna, dai barnabiti, per cinque anni: c'era una biblioteca con venticinquemila volumi, molto bello».

E poi?

«Poi al classico in uno statale, il Muratori di Modena. Anche lì severissimi. Tornare a casa fu un altro trauma: dovevo alzarmi all'alba e fare un'ora e mezzo di autobus, non avevo più tanto tempo per studiare e neanche la mia camera, non c'era il riscaldamento».

Una vita di campagna?

«I miei genitori avevano un patrimonio consistente ma agricolo, c'era una certa austerità. Però non ci mancava niente, mio padre ci mandava in vacanza al mare per un mese col taxi, ci portava a comprare i vestiti nei negozi più belli di Bologna».

Lavoravate nei campi?

«Come no. Lui ci diceva: se avete un minuto libero, ho bisogno di voi. E poi d'estate eravamo sempre arruolati. È stata un'altra palestra: capire che la fatica è nobilissima è ciò che ti dà l'orgoglio di procurarti da solo i mezzi di sussistenza. Una forma di educazione integrale».

Ma al liceo come se la cavava?

«All'inizio ho avuto difficoltà. Poi mi sono ripreso, però non ti risparmiavano le umiliazioni, ricordo che il professore di greco mi diceva: “Manfredi, perché non vai a vendere banane?”».

Proprio quello di greco?

«Eh sì. Qualche anno dopo gli ho portato un'antologia di storici greci...».

Su che cosa ha fatto la tesi?

«Sulla falange macedone. Mi piacevano le cose tecniche. Portai anche un modello di sarissa lungo 4 metri, la lasciai fuori dall'aula, dissi ai prof: “Se volete vederla...”».

Qualcuno andò a vederla?

«Nessuno. Al massimo fecero qualche sorrisetto».

Lo scavo più emozionante?

«Non vai a scavare per le emozioni ma per studiare, trovare prove. Non è che abbia aperto la tomba di Tutankhamon... A volte l'archeologia può anche essere noiosa».

Con tutti i misteri che ci sono?

«In archeologia non esistono misteri, solo problemi da risolvere. Il mistero rimanda a qualcosa di trascendente, incomprensibile, invece l'archeologia è una scienza, più o meno esatta, che si basa su studi e prove».

Nei suoi viaggi però si sarà emozionato.

«Certo, durante la ricostruzione dell'Anabasi per esempio, quando arrivi a vedere il trofeo dei Diecimila... Poi di fronte ai paesaggi, ai colori, ai silenzi in quelle terre dove il tempo sembra non sia mai passato: sull'altopiano dell'Anatolia ho visto ventilare il grano come ai tempi di Omero. Fantastico».

Durante i suoi viaggi ha incontrato anche Fidel Castro.

«Sì, ero a Cuba per presentare la mia trilogia e lui mi ha invitato a cena, più di una volta. Funziona così: arrivi verso le undici di sera e poi lui ti intrattiene fino alle 7-8 del mattino».

E perché l'ha invitata?

«Perché è un mio fan. Anzi, lui è un fan di Alessandro il Grande, così il figlio gli aveva regalato la trilogia in spagnolo».

Scusi, proprio Fidel è un fan del primo creatore dell'Impero?

«Il suo nome di battaglia era Alejandro. Mi ha spiegato che lo colpiva che Alessandro avesse sbaragliato un esercito, quello persiano, grande il quadruplo del suo. Gli sembrava la sua stessa impresa».

Chiaro. La trilogia su Alessandro è stata un bestseller. Quanto ha impiegato a scriverla?

«Un anno, per 1.275 pagine. L'editore mi aveva detto: investo un miliardo nel lancio, ma abbiamo fretta. Il libro seriale dura pochissimo. Era vero».

Quanto ha venduto?

«Quattro milioni di copie in tutto il mondo».

I colleghi scrittori la apprezzano?

«Per me la lingua non è fine a se stessa ma è un mezzo per raccontare una storia. Altri perseguono un'espressione conclusa in se stessa. Narrare una storia affascinante è considerato un libro di genere, di serie B a prescindere dalla qualità della scrittura».

Allora una bella storia è un escamotage ?

«Per me no. L' Odissea è un capolavoro immortale ma è anche una storia grandiosa di avventura, sesso, inganno, mistero, violenza: non abbiamo più inventato molto, dopo».

E invece i colleghi accademici che cosa le dicono?

«Dipende. Mi risulta che alcuni dicano di me cose sgradevoli. Ma sono certo che non mi hanno mai letto. E comunque è un problema loro, non mio».

Perché la criticano?

«C'è l'idea che scrivere un romanzo sia un divertimento, ma bisogna provarci per capire quanto sia duro e faticoso costruire una storia. Del resto fra la storia come disciplina accademica e la narrazione c'è una differenza fondamentale, sarebbe come confondere Tucidide con Omero. La narrazione nasce per trasmettere emozioni e vivere avventure che il nostro destino ci avrebbe negato».

Come quelle degli eroi. Oggi esistono ancora?

«Faccio un esempio: nel 1956 affondò l'Andrea Doria e il capitano Calamai fu costretto a forza a lasciare la nave dai suoi ufficiali, dopo che tutti erano stati tratti in salvo. Tre anni fa Schettino...».

È un paragone impietoso.

«Ma scusi, il primo era un eroe di guerra, questo è un buffone. Poi ogni tempo ha i suoi eroi».

Non dica che ci rappresenta tutti.

«No, infatti poche settimane fa gli uomini della Marina hanno salvato la Norman Atlantic con una impresa straordinaria».

Ma oggi c'è qualcuno con una missione come gli eroi antichi?

«Ci sono tutti i giorni persone che rischiano la vita: infiltrati tra le file della mafia e della camorra, in nazioni pericolose, in zone di guerra. È l'epoca che ti plasma».

Il suo eroe preferito?

«Il re di Itaca, senz'altro. Ulisse è già moderno. Ed è così affascinante perché non è monolitico: è capace di paura, si fa prendere dal panico, fugge. È un uomo vero, e per questo è immortale».

Non le fa tristezza vedere com'è ridotta oggi la Grecia?

«Ma no, è tutta un'altra cosa. Dall'antica Grecia sono passati venticinque secoli».

Hanno creato la civiltà europea, e ora combattono contro l'Europa.

«Ma loro non lo sapevano, che creavano la civiltà occidentale. La storia non si ripete, checché se ne dica. Noi italiani abbiamo più continuità col nostro passato rispetto a loro, grazie al Rinascimento. Non c'è un anno, un giorno, un'ora in cui noi non abbiamo creato meraviglie».

Ma l'Impero di Roma è ancora un modello?

«No. Oggi le condizioni sono troppo diverse, qualunque paragone è una forzatura. L'America è una democrazia, la Cina è diametralmente opposta per cultura e tradizioni. La Russia, sì, ha sempre voluto assomigliarci, ha sempre avuto questo riferimento al fantasma di Roma antica».

Non solo la Russia.

«È vero, il mondo non si è mai rassegnato alla caduta di Roma. Ci hanno provato Carlo Magno, Carlo V, Napoleone. Invano».

E lei ha mai sognato di vivere in un'altra epoca?

«No, mi piace la mia».

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