Cultura e Spettacoli

Il pensatore necessario nel Novecento delle idee conformiste

Una nuova biografia di Arthur Koestler, lo scrittore che fu sionista, comunista, anticomunista e anti-darwinista. Secondo Raymond Aron fu "il più grande e il più impegnato intellettuale" del secolo

Il pensatore necessario nel Novecento delle idee conformiste

Londra - «Sono nato nel momento in cui il sole tramontava sull’età della ragione», scriveva Arthur Koestler in Freccia nell’azzurro, il primo volume della sua autobiografia. Per lo scrittore ungherese che nell’arco di una vita tumultuosa avrebbe vissuto e incarnato i conflitti del XX secolo - l’antisemitismo, i totalitarismi, le guerre -, il declino dell’umanesimo liberale era diventato l’ossessione degli ultimi anni. Nato nel 1905 a Budapest e morto suicida a Londra nel 1983, Koestler era stato sionista, ma a modo suo; un comunista fervente e un anticomunista intransigente; nemico della pena di morte e apostolo dell’eutanasia. E attaccò la fortezza del neo-darwinismo sfidando il prevalente consenso intellettuale. Un uomo dall’«intelligenza diabolica» sempre all’erta, dicevano le donne, «il più grande e il più impegnato degli intellettuali del XX secolo», affermava Raymond Aron. Ma anche, e forse proprio per questo, un personaggio controverso e frainteso.

Oggi una nuova biografia «definitiva», Koestler: The Indispensable Intellectual di Michael Scammell (Faber & Faber, pagg. 714, sterline 25) ne riscatta la statura, disinnescando molti giudizi tendenziosi sulla scorta di una ricerca ventennale. Docente alla Columbia University di New York e già biografo di Solzenicyn, Scammell ha attinto a numerosi documenti inediti (diari e corrispondenze private). E ha avuto accesso, negli archivi di Mosca, ai dossier relativi alle attività di Koestler nel partito comunista dal ’29 al ’38. Ma anche ai faldoni dei servizi segreti britannici che dal ’36 al ’50 tennero lo scrittore sotto sorveglianza perché sospetto di spionaggio in Palestina. Senza dipingere un ritratto idealizzato, la biografia smonta l’immagine proiettata dal saggio di David Cesarani del 1998, incentrato sull’ebreo degiudeizzato, l’apostata del comunismo, il sionista antisionista, il «rinnegato» dal comportamento «eccentrico ed estremo» nella vita privata.

Nato in una ricca e colta famiglia ungherese di ascendenza ebraica, Koestler fu testimone del crollo della civiltà asburgica, da studente a Vienna abbracciò il sionismo intransigente di Vladimir Jabotinsky e nel ’26 emigrò con entusiasmo in Palestina dove, invece della terra promessa, «trovai - scriverà - una realtà estremamente complessa che mi attraeva e mi disgustava, sarei diventato schizofrenico se fossi rimasto». Giornalista di successo a Berlino nei primi anni Trenta, unitosi al Partito comunista tedesco fu a Mosca e quindi in Spagna come membro del Comintern. Catturato dalle forze di Franco e condannato a morte, riparò in Francia, poi fuggì dall’avanzata nazista arruolandosi nella legione straniera, infine approdò in Inghilterra dove per altro non si sentì mai a casa.

In Il dio che ha fallito, uno dei libri più significativi della metà del secolo scorso, Koestler raccontava insieme ad altri (Gide, Silone, Spender) la sua disillusione del comunismo, la lotta per stare in equilibrio sulla fune dell’autoinganno, mentre nel suo capolavoro Buio a mezzogiorno denunciava la logica contorta dei processi di Stalin e il suicidio morale di chi sosteneva lo stalinismo come ideale. Seguirono molti altri saggi politici e romanzi, ma via via i riflettori sulla sua figura si spensero, sia per le sue ambiziose pubblicazioni su temi scientifici disdegnati dalla scienza ufficiale, sia per l’indignazione pubblica scatenata dal sacrificio non necessario della terza moglie Cynthia nel suicidio a due dell’1 marzo ’83 quando, colpito da anni da una forma lenta e inesorabile di leucemia e afflitto dal Parkinson, Koestler decise di uscire di scena a modo suo. Cynthia aveva vent’anni di meno e non era malata, ma le lettere alla sorella oggi chiariscono come per lei non si trattò di un sacrificio, bensì di una scelta: «Dopo 35 anni di vita in comune non potrei vivere senza Arthur, nonostante certe mie risorse interiori».

Argomento cruciale nella vita di Koestler è il suo rapporto con le donne. Scammell non sorvola e descrive un uomo sgradevole ed esigente, un manipolatore, un seduttore sessualmente vorace e promiscuo. «Non posso stare solo e sono incapace di vivere con qualcuno», diceva lui. Simone de Beauvoir, che a Parigi negli anni Trenta aveva passato una sola notte con lui (perché «era violento» come scrisse a Nelson Algren), nonostante il disprezzo per la sua «stupida arroganza» e il fossato incolmabile dell’ideologia, non lo dimenticherà e farà il ritratto di un uomo complesso e infelice ma affascinante, egocentrico ma capace di affetti. Un uomo che, come dice di Scriassine, l’intellettuale inquieto alter ego di Koestler nel romanzo a chiave I mandarini, «aveva l’illusione che la solitudine potesse essere curata con la forza».

Provocazione e polemica erano una seconda natura per Koestler, condannato a oscillare fra arroganza e umiltà, come uno dei personaggi di Dostoevskij, scrittore che tanto ammirava. Per fortuna, scrive Scammell, oggi si sono spente molte delle passioni che ha suscitato da vivo e che ancora si agitavano dopo la sua morte. Buio a mezzogiorno è uno dei grandi romanzi del XX secolo e le autobiografie Freccia nell’azzurro e La scrittura invisibile restano capolavori di memorialistica. Koestler, dal fiuto straordinario, afferrò presto la centralità del «problema ebraico», i pericoli del totalitarismo e delle false promesse del comunismo sovietico, assieme alla cruciale importanza della libertà politica e della chiarezza etica.

Un vasto territorio da coprire, che Koestler coprì da «reporter cosmico» con il suo genio per l’assimilazione e la sintesi, da «Casanova delle cause», come amava definirsi, mai arido e mai astratto nell’analisi dialettica e nella penetrazione psicologica, da intellettuale indispensabile in un secolo di cui fu testimone ed epitome.

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