Politica

«Pensionati, ho un’idea per voi: formiamo famiglie da 40 anziani»

Ha fondato l’Istituto italiano certificazione di qualità. Ha organizzato il primo salone dell’esoterismo. Ha stupito Berlusconi in visita a Tirana In pochi giorni 714 coetanei chiamano il suo numero verde

Nella vita ha venduto di tutto: libri, quadri falsi, formule alchemiche, certificazioni di qualità alle aziende. «Ma di professione vendo chiacchiere», ammette lealmente, «e talvolta riesco addirittura a farmi pagare». Il cognome non lo aiuta: Felloni. Eppure per sette anni è stato anche un servitore della legge. Con la loquela che si ritrova, Alessandro Felloni non poteva restare quello che era: vigile urbano a Cremona. «Fui licenziato perché mi rifiutavo di elevare le contravvenzioni. Le consideravo diseducative. Il comandante mi deferì varie volte al consiglio di disciplina. Alla fine mi denunciò per omissione di atti d’ufficio. “Perché non fa le multe?”, mi chiese il pretore. Perché nel verbale va indicato l’orario e io non ho l’orologio. “Ma come? Ce l’ha al polso!”, obiettò lui. E io: sì, signor giudice, ma questo è il mio orologio personale, quindi lo uso soltanto quando pare a me. Il corpo dei vigili urbani non mi ha mai dato in dotazione un orologio d’ordinanza. Conclusione: assolto».
Quando nel 1967 studiava sociologia a Trento, dove s’è laureato, Felloni riusciva a incantare, senza mai contaminarsi, anche i compagni di studi che di lì a tre anni avrebbero fondato le Brigate rosse: Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini. «La Cagol era bellissima. Non ho mai capito perché abbia sposato Curcio, che era un tappo. Durante i collettivi, il futuro terrorista m’invitava a parlare: “Adesso ascoltiamo il borghese”. Diceva così perché mio padre era antiquario e mia madre insegnante di lettere».
Con la sua capacità affabulatoria Felloni ha stupito persino Silvio Berlusconi, che in materia è considerato la Cassazione. «Quale fiduciario italiano della Confindustria albanese, ho avuto il piacere d’incontrare il presidente del Consiglio in visita a Tirana. Alla fine sono stato l’unico dei 33 imprenditori presenti ad alzare la mano per porgli qualche domanda. “Accidenti, mi sa che hai successo anche con le donne!”, mi ha risposto il premier, dandomi del tu. E alla fine s’è congedato con un “ciao, Felloni”».
Adesso che sta per compiere 73 anni, questo cremonese trapiantato da una vita a Torino, dove nel 1989 ha fondato l’Iicq (Istituto italiano certificazione qualità), s’è messo a vendere un discorso che lo riguarda assai da vicino: il futuro dei pensionati. Ha istituito un numero verde e, a colpi di mezze pagine di pubblicità acquistate sul quotidiano popolare Cronaca Qui, reclamizza La Mia Famiglia, «una comunità autogestita in cui gli anziani rimasti privi di affetti conservano uno spazio privato ma possono mettere insieme le loro debolezze per trasformarle in una forza».
Ha già investito a fondo perduto, di tasca sua, 10.000 euro. Il risultato è stato travolgente: 714 telefonate in pochi giorni. E altre continuano ad arrivare. «A uno a uno ascolterò tutti. Ho già richiamato personalmente più di 200 persone. Il report che ne esce è angoscioso. I miei coetanei dicono di non avere futuro: solo giorni da trascinare. Sono preoccupati di gravare sui figli. Non vogliono subire l’umiliazione di dover chiedere aiuto. Vedono la casa di riposo come un lager. Temono di finire in balia del personale che decide per loro. Si sentono inutili e soli».
Dalle parole Felloni pensa di passare presto ai fatti. «Ho una casa di vacanza a Bossolasco, sopra Dogliani, il paese di Luigi Einaudi. Tre piani, 400 metri quadrati. Sono pronto a metterla a disposizione della Mia Famiglia. Ho anche scritto al presidente Berlusconi. Chissà se si ricorda del nostro siparietto a Tirana. Sarebbe bello se creasse la Fondazione Mamma Rosa, in ricordo della madre, che ha avuto la fortuna di poter morire a 97 anni nel proprio letto. Confido nella munificità dei privati. La Baggina di Milano non è forse una donazione del nobile Tolomeo Trivulzio che diede il suo nome al Pio Albergo? E la contessa Anna Maria Colleoni non lasciò 2,3 miliardi di lire ad An, anche se poi l’appartamento di Montecarlo è finito a chi sappiamo? E la contessa Maria Virginia Borletti non girò a Romano Prodi e Antonio Di Pietro il 20 per cento del patrimonio che aveva ereditato dal padre Mario, 3,5 miliardi di lire a testa? Spero che il messaggio arrivi anche a Marella Caracciolo, la vedova di Gianni Agnelli, visto che La Mia Famiglia nasce nella sua Torino».
Non sarà un po’ troppo ottimista a fare i conti col portafoglio altrui?
«Mio padre mi diceva: “Getta un sasso nello stagno. Piccolo o grande che sia, provoca delle onde concentriche che arrivano sempre a riva. Basta aspettare”».
Un saggio.
«Però è stata mia madre a farmi da padre. Si annoiava a morte se le ponevo quesiti banali: “Alessandro, ti vorrei intelligente, creativo, non ripetitivo”. Ho imparato da lei a essere sempre sorprendente. La prevedibilità non aiuta negli affari. Una lezione che m’è servita per far colpo su Valentino Bompiani».
Ha lavorato per l’editore Bompiani?
«Entrai nella sua casa editrice come correttore di bozze e ne uscii dopo 25 anni da direttore commerciale».
Bella carriera.
«Un giovedì mattina leggo le offerte di lavoro qualificate pubblicate dal Giornale, allora diretto da Indro Montanelli: “Casa editrice di medie dimensioni cerca direttore commerciale, anche privo di precedenti esperienze, purché laureato, dinamico e ambizioso”. Il mio ritratto. Scrissi una lettera: sono il vostro candidato ideale. Seppi poi che la Orga, la società che selezionava il personale, mi aveva scartato con la dizione “soggetto troppo ambizioso”. Ma Bompiani, incuriosito da quelle due righe, ordinò: “Chiamatelo”. Immagini la sorpresa quando al colloquio mi trovai davanti il mio datore di lavoro. Il quale a sua volta scoprì che ero uno dei suoi correttori di bozze. E il posto fu dato a me».
Ha sentito il bisogno di creare La Mia Famiglia perché è rimasto vedovo?
«No, anzi di mogli ne ho addirittura due: Franca, la mia attuale compagna, e Carla, donna straordinaria che mi ha dato due figli, dalla quale ho divorziato 25 anni fa perché i miei orari in ufficio non coincidevano con le sue aspettative. Sa, anche adesso che ho superato i 70, resto un’efficientissima macchina da lavoro».
Allora perché?
«Ho visto la tragica fine che ha fatto uno zio della mia compagna, abitante a Cremona. Aveva 85 anni. Persa la moglie, ha donato tutto ciò che aveva ai figli, un architetto e un’avvocata: immobili, 1.500 pertiche di terra, cascine. A un’unica condizione: che i due integrassero con 2.000 euro mensili, vita natural durante, la sua pensione di coltivatore diretto, 650 euro. Purtroppo il figlio ha sperperato l’eredità e la figlia se l’è fatta mangiare. Il loro padre è finito in un orrendo ospizio, a carico del Comune. Andai a trovarlo: l’avevano messo in una stanza a nove letti, tre dei quali occultati da paraventi perché ci stavano morendo altrettanti ricoverati. La desolazione totale. Corsi dal direttore: se non lo mette in una stanza singola, dove la dignità di quest’uomo sia salvaguardata, giuro che qui scoppia uno scandalo. Da quel momento versai 650 euro in aggiunta alla retta mensile. Cominciarono a trattarlo con decoro. Ma il peggio era già stato fatto: quattro mesi dopo lo zio della mia compagna morì. Allora dissi a Franca: ho una salute di ferro, guadagnicchio, giro su una Lancia Thesis, sono rispettato, ho assunto mia figlia e aiuto economicamente mio figlio, eppure anch’io potrei finire come questo tuo parente. Non voglio».
Lei quanto prende di pensione?
«La stessa cifra, 650 euro mensili, perché come dirigente me la feci liquidare subito dall’Inps. Ne ho altrettanti di previdenza integrativa. Però dai calcoli che ho fatto anche 650 euro potrebbero bastare per mettere insieme dai 30 ai 40 anziani nella Mia Famiglia, purché autosufficienti. Se poi nel corso degli anni dovessero avere qualche guaio di salute, non saranno abbandonati, ma curati con amore, come accadeva nelle famiglie patriarcali».
Ma in un vita di lavoro non ha messo da parte abbastanza per restare in casa sua e pagarsi una domestica?
«Ovvio che sì. E ho anche la fortuna d’essere capace di badare a me stesso: so stirarmi le camicie e passo l’aspirapolvere meglio di una colf. Però mi sento un pioniere. Le garantisco che questa famiglia nascerà. Chi avrebbe mai detto che Umberto Bossi, un signor Nessuno, avrebbe creato la Lega, diventata determinante per qualsiasi governo? Senza i visionari, non si combina niente».
E La Mia Famiglia chi la governa?
«Un sindaco eletto dai componenti della famiglia. Il primo e il secondo dei non eletti saranno i suoi consiglieri. Il sindaco dovrà rispondere a me, fondatore e regista dell’iniziativa».
Una monarchia parlamentare.
«Ricorda La città dei ragazzi, il film del 1938 con Spencer Tracy? Il modello che ho in mente è quello. Io sarò il padre Flanagan della situazione. Un deus ex machina carismatico che dovrà trasferire a ognuno l’onore dell’incarico al servizio di tutti e l’onere di renderne conto».
E se lo svolge male?
«Ci si regolerà come nelle aziende, destinandolo ad altro incarico. Istituirò un collegio dei probiviri».
La sua compagna che ne pensa?
«Trema. Sa che se mi metto in testa un’idea, alla fine la realizzo sempre».
Franca vivrebbe nella famiglia allargata?
«No. Purtuttavia mi è ben chiaro che, qualora la mia condizione dovesse cambiare, l’unica via d’uscita civile e accettabile è questa».
Ha paura del futuro?
«No. Mi sono laureato con una tesi sulla casualità. Alla casualità ho improntato la mia intera esistenza. La casualità va assecondata perché decide per te. Nella mia vita ho affrontato alti e bassi e sempre m’è venuta in soccorso la provvidenza. Mio padre mi ha insegnato che se una cosa non è impossibile, significa che è possibile».
Quali pensa che saranno le difficoltà maggiori per costituire La Mia Famiglia?
«La burocrazia. Vai dall’assessore, gli spieghi la tua idea e ti accorgi che lui ha una visione diversa del problema. Poi dovrò fare i conti con le Giunte, i Consigli, i funzionari, le case di riposo. Ognuno difenderà il suo orticello».
Ha già avuto contatti con le istituzioni?
«Cristiano Bussola, eletto alla Regione Piemonte nel listino del governatore Roberto Cota, mi ha detto che è un’idea bellissima. Idem Daniele Cantore, consigliere regionale del Pdl».
Lei ha il ticchio della famiglia allargata: in passato «ha scritto a tutti i Felloni d’Italia - ne ha rintracciati un migliaio - per costituire il Casato Felloni e ritrovarsi insieme in provincia di Parma, nel Comune di Bore, dove esiste una località che si chiama Felloni», ho letto nell’archivio della Repubblica.
«Con l’aiuto di Marco Felloni, consigliere della Camera di commercio di Ferrara, siamo già diventati 60. Abbiamo fatto due raduni e comprato tre carrozzelle per disabili con l’etichetta Casato Felloni».
Si vantava anche di possedere il passaporto del Principato di Seborga, fondato dal sedicente sovrano Giorgio I, al secolo Giorgio Carbone.
«E lei come fa a saperlo? È vero. Un giorno stavo visitando questo paesino della Liguria. Nell’ufficio del turismo ho trovato un’impiegata talmente ostile che mi sono messo a litigare. Passa di lì sua altezza Giorgio I e si ferma ad ascoltare. A un certo gli urlo: senta, ma lei, principe del menga che sta qui a fare il convitato di pietra, non potrebbe dire qualcosa? Siamo diventati amici. Mi ha tenuto lì tre giorni e mi ha dato il passaporto».
Nel 1982 s’era inventato il museo dell’immaginario, con sede qui a Torino, in largo Emilia, a un passo dal Balon.
«Vero anche questo. Ci esponevo i falsi d’arte, con tanto di certificati che ne attestavano l’autenticità. Gliene mostro uno». (Va nell’altra stanza e torna con un acrilico su legno di Ugo Nespolo). «Vede? Sul retro è impresso a fuoco “Falso d’autore”. Altrimenti l’avrebbero preso per vero. Ero arrivato ad avere nove dipendenti e 3.000 quadri in magazzino: Beato Angelico, Raffaello, Caravaggio, Goya, Rembrandt, Bruegel, Chagall, Morandi, Segantini, Warhol, Botero. Alcuni costavano più di 10 milioni di lire. Per le copie mi affidavo ad allieve dell’Accademia Albertina e di Brera. Tenevo mostre nei grandi alberghi. A Sankt Moritz vendetti due bellissimi Sironi farlocchi a Gianni Agnelli, all’Hilton di Roma un Warhol a Frank Sinatra e una tela di Tamara de Lempicka, se non ricordo male, a Sophia Loren. Poi all’improvviso il mercato del falso s’è sgonfiato e ho dovuto chiudere».
Ma lei è lo stesso Felloni che nel 1993 qui a Torino organizzò Magica, il primo salone italiano dedicato all’esoterismo, esponendo un raro esemplare di stregoneria del 1815, una bambolina in cera infilzata di spilli, e chiamando i relatori a discettare su Nostradamus e sul demonio?
«Confermo. Un tale successo, 150.000 visitatori, da poter essere considerato irripetibile, e infatti quella fu la prima e ultima edizione: non avrei sopportato un calo di presenze nella seconda. Invitai il mio amico Gianluigi Marianini, il campione di Lascia o raddoppia?, grande demonologo».
Lei crede al diavolo?
«Sì, e non solo perché ho studiato dai barnabiti».
Ed è vera la fama di Torino culla dell’occultismo se non del satanismo?
«Verissima. Stentavo a crederci fino a quando non conobbi il torinese Gustavo Adolfo Rol, il più grande sensitivo italiano, che fu ospite d’onore a Magica. Ero andato da lui accompagnato da un suo amico. Mi ero appuntato alcuni quesiti da rivolgergli. Dopo le presentazioni, Rol mi disse: “Nella tasca destra della giacca lei ha un foglio a quadrettoni, strappato da un bloc-notes, nel quale sono segnate delle domande a cui rispondo subito”, e una dopo l’altra le ha azzeccate tutte. Comunque come logo della Mia Famiglia ho scelto un vescovo stilizzato. Potrebbe essere tanto Sant’Ambrogio quanto Sant’Omobono, patrono di Cremona. L’importante è che qualcuno protegga i vecchi».
(538. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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