Politica

Pepino, la toga che vuole «disturbare il manovratore»

Il consigliere di Palazzo Marescialli incaricato di stendere la bozza di parere sul decreto propugna la «disobbedienza» all’establishment con dichiarazioni da guerriglia rivoluzionaria

«La magistratura ha un compito da assolvere: quello di guardianaggio democratico duro e intransigente, fino alla resistenza, se la gravità dei fatti lo richiede». È una frase che starebbe bene in bocca a Che Guevara, o, per volare più basso, all’ultimo dei no-global. E invece l’alfiere della resistenza delle toghe si chiama Livio Pepino, guardacaso uno dei due giudici che in queste ore sta redigendo il parere ufficiale del Csm contro la legge blocca-processi.
Dicono che la norma è contro la Costituzione? Benissimo. Sentite cosa scriveva Pepino, solo nel 2002, della nostra carta fondamentale: «La Costituzione, nei confronti dei magistrati, prima ancora che l’obbedienza alla legge, comanda la disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al Palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici». E già questo basterebbe per capire in che mani siamo. Guardianaggio. Disobbedienza al palazzo. Una terminologia affine alla guerriglia rivoluzionaria, più che alle aule di tribunale. Insomma, proprio quello che ci vuole, per sfornare «prestigiosi pareri».
Che poi, sai: fosse una novità. Il linguaggio militaresco-giudiziario ce l’ha sempre avuto nel sangue, questo magistrato torinese ora approdato in Cassazione. Tutti lo ricordano come agguerrito ex presidente di Magistratura Democratica, la corrente sinistrorsa delle toghe italiane. In un pamphlet di qualche anno fa minacciava: «Noi magistrati non abbiamo osato troppo: abbiamo osato troppo poco, perché si è diffusa anche al nostro interno l’insana convinzione che il manovratore va disturbato con garbo». Chi sia il manovratore lo sappiamo tutti: è il potere politico. Il vero nemico da abbattere. «Cambiano i bersagli, ma noi siamo sempre contro il pensiero unico dominante», scrive Pepino, entrando nei particolari: «La nostra è una giurisprudenza alternativa, che rifiuta la falsa neutralità, che affermi gli interessi delle classi subalterne».
Ora: vi pare logico che uno così, in queste ore, si prepari a giudicare la correttezza costituzionale del Parlamento democraticamente eletto, del governo democraticamente nominato, delle leggi democraticamente approvate? Quale serenità si può pretendere, da una persona che individua nel potere politico un «bersaglio» da colpire? Ce lo racconta lui stesso: «Il mito del giudice come bocca della legge» è un modello «conservatore gradito all’establishment». La magistratura, dice lui, deve «fare una scelta di campo». Obiettività? Riserbo? Correttezza? Cianfrusaglie inutili, per un giudice. «La meritocrazia - scrive Pepino - è un metodo inadeguato alla giustizia... non bisogna selezionare i magistrati migliori, ma perseguire la crescita di tutta la magistratura». Hasta la victoria siempre, verrebbe da aggiungere. Altro che ingerenza: qui siamo al socialismo reale applicato ai tribunali. Ce n’è abbastanza per rifletterci un attimino, quando Berlusconi si lamenta di certe toghe «politicizzate che mirano a sovvertire la volontà popolare». E stupisce che Nicola Mancino, nel condannare immediatamente le frasi berlusconiane, non si sia accorto di avere uno come Pepino in seno all’alto collegio da lui presieduto. Diciamocelo: uno che va in giro a parlare di «resistenza», come ai tempi del nazifascismo, non sembra la persona giusta per preservare il prestigio della magistratura in questi giorni di fuoco.
Peraltro, che tra il magistrato e il Cavaliere non corresse buon sangue, era evidente. Nel 2002 ha dato del «maccartista fascista» a Previti, solo perché voleva conoscere i nomi dei suoi consociati. Qualche anno dopo, per festeggiare i 40 anni di Magistratura Democratica, il nostro eroe ha allestito uno spettacolino di cabaret con Dario Fo. Secondo la cronaca di Liana Milella su Repubblica, durante lo show il premio Nobel auspicava la condanna di Berlusconi al processo Sme, favoleggiando di «un gran signore che si butta in politica e ha pure successo», che «prende come assistenti degli avvocati», ma che «nel momento del massimo splendore, muore». A queste parole la platea di magistrati democratici ride e applaude manco fossero a Zelig. Tra loro c’è proprio Pepino, che senza vergogna dirà: «Certo, abbiamo riso e applaudito. Sulla scena c’era un grande artista della satira, insofferente di pastoie e censure che in altri ambiti sembrano diventate la regola». Niente di strano, dunque, per uno come lui, che di giorno scrive le sentenze, e di notte gli articoli per L'Unità, il Manifesto e Micromega. Da giudice ha messo bocca su tutto, con la solita verve. Sulla sicurezza dice: «Senza memoria e senza opposizione intransigente un cupo passato può tornare». Sul processo Andreotti dice: «È il deperimento della democrazia». L’ultima uscita l’ha vergata pochi giorni fa, sull’«emergenza rifiuti, pretesto per una escalation repressiva nelle politiche di ordine pubblico».
Insomma: chiamatelo intuito, chiamatelo sesto senso, chiamatelo come vi pare.

Ma abbiamo l'impressione che, se il Csm boccerà la legge blocca-processi, forse forse un motivo ci sarà.

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