Perché l’Ue non influenza l’economia

Perché l’Ue non influenza l’economia

Vittorio Mathieu

Ho rischiato anch’io di entrare, a medio livello, nella burocrazia di una delle agenzie sovrannazionali tipo Onu: come direttore del dipartimento di filosofia dell’Unesco. Fortunatamente la domanda non fu accettata. Poco dopo ho avuto occasione di conoscere l’Unesco dall’interno, come membro del Consiglio esecutivo, e ho capito perché quella carriera rischi spesso di svuotare le persone. Non trovo strano, di conseguenza, che quando un alto funzionario ritorna in Italia dopo aver servito nell’Ue - che è un ente «regionale», in linguaggio burocratico, ma molto simile alle agenzie tipo Onu - dia l’impressione di aver perduto il contatto con la realtà.
Quelle burocrazie sono autoreferenziali. I bilanci di cui dispongono servono a pagare i dipendenti. L’influenza che esercitano sui governi è scarsa. Sull’opinione pubblica non hanno efficacia. Quanto all’influenza simmetrica, che gli Stati membri esercitano su di loro, è difficile capirne le ragioni. Ai miei tempi, ad esempio, uno degli Stati più influenti all’Unesco era la Jugoslavia, al punto che una Conferenza generale fu tenuta a Belgrado anziché a Parigi. Gli Stati Uniti, che pagavano da soli un quarto delle spese, contavano pochissimo: in quell’occasione se ne andarono e rimasero fuori a lungo.
Anche la Commissione Ue ha un’attività autoreferenziale del tutto analoga. Le sue decisioni sono le celebri normative buffe, fatte conoscere da tutti i giornali, che all’Ue costano poco o nulla. Le poche decisioni che influiscono sull’economia dipendono dall’influenza di questo o quello Stato nazionale.
Queste riflessioni mi tornano alla mente ogni volta che vedo in televisione la faccia di Romano Prodi, e che sia sorridente, o che abbia un’aria cupa. Mi viene allora il timore che i suoi sostenitori nell’Unione (non europea, ma italiana) diano su quella faccia il giudizio che la volpe di Fedro dà della maschera tragica.
Eppure tutti i Prodi che conosco, Romano compreso, hanno un valore fuori del comune. Paolo è ai Lincei, Giovanni ho avuto occasione di apprezzarlo quando ero suo collega a Trieste. Giorgio, il migliore di tutti, era bravo come oncologo ma anche come romanziere: purtroppo è morto. Romano lo ascoltai con interesse ad Alpbach; e quando tentò di privatizzare il Maccarese scrissi di lui che, oltre d’intendere, sembrava capace perfino di volere. Certo, quella privatizzazione andò a monte e i successivi criteri per vendere le aziende dell’Iri lasciano perplessi. Ma, ad esempio, l’aver messo in piedi un ente di consulenza come Nomisma non può non essere oggetto d’invidia per chiunque.
Non faccio esempi d’altre persone di valore che, di ritorno dall’Europa, danno l’impressione di essere svuotate: ognuno potrà cercarseli da sé. Concludo solo che questa situazione spiega perché il gran pubblico, che si basa soprattutto su impressioni, dia ormai dell’Europa giudizi molto più negativi di quello ufficiale dei governi in carica.
Ciò dovrebbe incoraggiare il nostro governo a cercar di esercitare sull’Europa un’influenza più profonda, più efficace, più disincantata di quella sempre esercitata dagli anni ’50 in poi. La diplomazia multilaterale - la cui tecnica è molto diversa dalla bilaterale - ha sempre avuto rappresentanti italiani di rilievo, ma l’indirizzo non può venire che da Roma. E l’indirizzo che veniva da Roma sotto la Prima Repubblica, con pochissime eccezioni, è sempre stato masochista.

Ora è cambiato, ma occorre insistere.

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