Politica

Perché il socialismo è morto e sepolto

Il merito di Anthony Giddens - il teorico del blairismo - è stato quello prima di avvisare, poi di motivare e infine di ripetere che la parola «socialismo» non ha più senso nel XXI secolo. Il merito di Francesco Rutelli è quello di aver letto le riflessioni dello studioso inglese, di averle capite e di saperle usare nella polemica politica. Lo ha fatto ancora ieri, per rafforzare il senso della sua visione del Partito democratico e per tenere acceso il dubbio sulla sua famiglia di appartenenza: una missione che non può significare l'ennesima piccola evoluzione della vecchia storia delle sinistre italiane ed europee, ma una vera e propria innovazione.
Se sul terreno culturale la discussione sul ruolo e la funzione delle socialdemocrazie resta aperta, anche se quel che è successo per un verso a Londra e a Berlino e per un verso opposto a Parigi dovrebbe aiutare a chiarire se non ad archiviare il dibattito, sul piano più strettamente politico l'uscita del leader della Margherita ha un significato preciso, guarda alla collocazione internazionale del nuovo soggetto politico e cerca di indicare nuovi orizzonti al post-comunismo, al post-socialismo e al post-cattolicesimo democratico italiano. Direi che sia l'unica visione possibile, se non si vuole ripetere una storia di strappi incompiuti e di ambizioni frustrate, anche sul piano europeo, dove la «famiglia socialista» appare sempre più priva di capacità innovativa. E aggiungerei che è l'unica risposta sensata a chi ripropone, aggiornandola, come hanno fatto Giavazzi e Alesina, la vecchia formula secondo cui solo una forza che si colloca a sinistra è in grado di attuare politiche liberiste e liberalizzatrici.
Ma scommetto che Rutelli non avrà troppi simpatizzanti fra i suoi compagni di avventura nel Pd, dove il richiamo al socialismo europeo, per quanto omesso nella sigla, resta un pilastro ideologico fondamentale. E paradossalmente lo resta per le ragioni tante volte esposte da Giddens: non avendo più un senso, non ha neppure un'identità se non nel richiamo ad una tradizione ottocentesca e novecentesca e, quindi, non comporta alcun impegno. È una scatola usa e getta che chiunque può riempire come vuole. Sono lontani i bei tempi dell'Internazionale socialista che diceva parole chiare, come quando parlavano il cancelliere Schmidt o il presidente Nyerere. Siamo nel secolo che si è lasciato alle spalle non solo il comunismo, ma anche le grandi battaglie per il Welfare. Oggi all'ordine del giorno dell'Europa e dell'Occidente c'è, semmai, la riforma del Welfare. E, su questi dilemmi, il socialismo o balbetta o si adegua alle ricette della Thatcher, di Aznar o della Merkel. Così come Nicolas Sarkozy, in questo 2007, sta diventando sempre più il modello da inseguire ed imitare.
Rutelli ha quindi detto una verità. Di più, una banale verità. Oltretutto avvalorata quotidianamente da un dibattito politico in cui le leadership uliviste confermano giorno dopo giorno che del socialismo non resta nulla da utilizzare. Quando Veltroni pone il problema di abbassare la pressione fiscale, quando Domenici e Cofferati chiedono poteri di polizia, quando Amato invoca il modello Giuliani non fanno altro che dire addio al socialismo, anche a quello europeo, e impossessarsi di altre culture, altre storie, altre tradizioni.

Ma guai a dare ragione a Giddens e a dire pubblicamente di voler sottrarre l'ultima utopia all'impresa di costruire un partito capace di essere semplicemente come si chiama, cioè democratico e distinto dai socialisti.

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