Cultura e Spettacoli

Percorsi a tema tra le sirene dell’inconscio

La letteratura e la poesia francesi considerate da alcuni tra i suoi maggiori autori quale strumento di conoscenza, di indagine profonda del sé, e dei meccanismi preposti all’atto dello scrivere: ecco il fondamento della nuova raccolta di saggi di Jacqueline Risset, Il silenzio delle sirene (Donzelli, pagg. 242, euro 28). Percorsi di scrittura, dunque, attraverso le pagine di coloro che più di altri hanno attribuito alla parola poetica una valenza assoluta, riconoscendole la facoltà di sonda dell’inconscio, indagatrice dei territori linguistici al di qua o al di là del linguaggio, al limite del silenzio (moneta semicancellata che passa di mano in mano, «en silence», come descrive Mallarmé il linguaggio umano).
Mallarmé, appunto, e chi altri? apre il volume e la sezione «Esperienze fondatrici» (ma il suo nome è poi quello che ricorre maggiormente, insieme a Bataille, Proust, Rimbaud). La sua «passione dell’impossibile» (è il titolo del capitolo), che lo consuma l’intera vita, sta nello sforzo inesausto di cogliere il pensiero, e la parola che ne discende, nell’istante del suo farsi; naturalmente il Coups de dès è il libro più significativo, in tal senso, e gli appunti (il Tombeau d’Anatole, il Livre) paiono - scrive la Risset - «come i tentativi più arditi di formulazione, di “traduzione diretta” - scintille passeggere, scintille di trasporto - che lasciano emergere il problema del pensiero come impossibilità di pensare, impossibilità come radice del pensare».
Lacan, che di poesia parve poco brigarsi in generale, è Mallarmé che cita più volte, nei passi degli Ecrits in cui esplora l’uso del linguaggio durante l’analisi; la quale ultima consisterebbe nel suonare le note di una partitura invisibile creata dai diversi registri. Nel saggio «Scrivere l’inconscio: Lacan e Mallarmé», l’autrice dimostra come essi giungano, per vie diverse, alle medesime conclusioni: e partitura è anche termine-chiave nel Coups de dès. Entrambi teorizzano una sorta di smarrimento del sé, dal quale esso rinasca secondo modalità diverse e nuove; lavorando in quella zona franca che precede ed anzi nega la piena comprensione di quanto ci sta dinanzi: «disfarsi dell’“abitudine inveterata di comprendere”, spingersi oltre, “dove si smarrisce un po’ ogni sapere...”. E analogamente Lacan: “Noi lo ripetiamo ai nostri allievi. Guardatevi dal comprendere”».
Affascinante pesca miracolosa, dunque, apertura del linguaggio a possibilità infinite; esperienza mistica nel caso di una certa famosa notte di Valéry, La Nuit de Gênes, sulla quale egli torna ripetutamente nella sua opera: una notte a Genova, appunto, di terribile tempesta dentro e fuori di lui («Temporale ovunque», nota), in cui avviene qualcosa, al suo interno, che lo muta per sempre: alla luce di quei lampi «è tutta una vita che si illumina» e che squarcia il velo del futuro; prodigioso coesistere di un tempo storico e di un tempo assoluto, il momento dell’opera colta sul nascere.
È la stessa esperienza che la Risset ritrova nel Proust degli abbozzi preparatori (in particolare il Carnet de 1908), in cui riconosce la natura mallarmeana di Proust, «nel momento della scrittura nascente, dove pensiero, poesia (metalinguaggio, linguaggio poetico) incrociano i propri fili e sorgono insieme, con una forza sconosciuta».
Sfilano poi i capitoli su Apollinaire, Breton e i surrealisti - altri convinti assertori della parola come grimaldello per «entrare nell’ignoto», se la si tratti con sufficiente «irresponsabilità» -, Artaud, Blanchot e i teorici e filosofi della lingua; fino alla quinta sezione, dedicata al «Raccontare» (da Céline a Beckett, dalla Duras a Genet, alla Yourcenar). Ecco l’«affaire Céline», il problema dell’antisemitismo come regressione allo stato «protetto» dell’infanzia, e la parola dalla medesima funzione arginante il tracimare della realtà; e, di nuovo, una «funzione Mallarmé» nella «scrittura-merletto» di Céline (merlettaia era la madre, e il merletto diviene per lo scrittore metafora della scrittura, «merletto che trattiene l’infinito», per dirla con Mallarmé). Si tratta ancora una volta di sottrarre il racconto «alla tirannia del senso», mediante la «trasposizione», lo scarto da ogni prospettiva realistica.


Letteratura del limite anche quella di Marguerite Duras, esplorazione di uno spazio sconosciuto; come, nel romanzo Agatha che in special modo viene analizzato, la dimensione amorosa tra fratelli, e qui, a causa appunto del soggetto trattato, soggetto «tacitato» per antonomasia, «è raggiunta la maggior leggerezza, la quasi assenza, l’impercettibilità del “libro su nulla”».

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