Controcultura

Piaceri sconosciuti e dolori famosi, la gioventù bruciata dei Joy Division

Piaceri sconosciuti e dolori famosi, la gioventù bruciata dei Joy Division

C'è ancora qualche buon motivo per spendere 20 euro, e quasi sempre è legato a un libro o a un disco. Questa è la cifra che va stanziata per acquistare un tomo fondamentale e la sua importanza la si capisce ancor prima di aprirlo: il formato, la grafica austera, l'odore della carta uso mano, di quelle oleate che si lasciano dietro qualcosa di particolare. E naturalmente la copertina che rimanda subito a un album fondamentale, Unknown Pleasures, che quando lo pubblicarono, nell'ottobre 1979, i Joy Division stavano forse scrivendo la fine della stagione del punk per aprire a sonorità oscure e cupe, segno che il loro malessere aveva natura profondamente esistenziale. Il disegno di Peter Saville (dire Saville è dire Manchester, la Factory, l'Haçienda di Tony Wilson, la successiva commistione tra indie rock ed elettronica) è diventato storia, imponendosi come uno degli artwork più famosi, tant'è che lo vedi ancora, quarant'anni dopo, stampato su felpe e T-shirt, utilizzato nei tatuaggi e sui social. Un segno enigmatico, il grafico comparato delle sequenze del segnale proveniente da una pulsar o da una stella di neutroni. Non ultimo l'autore, Jon Savage, un mito tra i critici e i giornalisti musicali che ha scritto, tra gli altri, la summa del punk Il (grande) sogno inglese e il provocatorio saggio L'invenzione dei giovani, musicista a sua volta, per nulla intiepidito dalla prossimità ai settant'anni.

Tutto questo è Joy Division. Autobiografia di una band, appena pubblicato da Rizzoli Lizard, che ha assurdamente sacrificato il titolo originale This searing light, the sun and everything else. Nemmeno si tratta di biografia, bensì di vera e propria storia orale, dove la scrittura di Savage diventa la voce di quelli che erano lì, a Manchester, tra il giugno 1976 e il maggio 1980, cominciando dai membri dei Joy Division, Peter Hook, Stephen Morris, Bernard Sumner e naturalmente lui, Ian Curtis, morto suicida a 23 anni, depresso cronico, epilettico, uno straordinario poeta rock interrotto prima del tempo. Non solo loro: Deborah la moglie di Ian, Michael Butterworth il libraio, i componenti dei Buzzcocks, il fotografo Anton Corbijn che sui Joy Division costruirà il film d'esordio Control, giornalisti, manager, comparse, semplici testimoni.

La storia comincia prima, all'inizio degli anni '70, quando erano ancora tutti ragazzi e molti abitavano a Macclesfield, lì dove morirà Curtis, che era persino più brutta di Manchester (che invece era piena di club) e dove non c'era davvero niente da fare se non ubriacarsi. «Se volevi della musica dovevi andartene in città. Prendere il treno, scendere alla stazione di Piccadilly e andare a sentire le band alla Free Trade Hall di Manchester. Ma dovevi poterti permettere il biglietto del treno e avere quei 26 pence necessari per sentire Rod Stewart e i Faces, i Kinks, Bowie. Alle volte ci riuscivo, andavo e compravo un biglietto. Una volta addirittura sono finito a sentire i Gentle Giant. Tutto quello che bisognava fare era andarsene da Macclesfield, perché lì non c'era nulla, assolutamente nulla» (S. Morris).

Però chi riusciva aveva il motorino e qualcun altro si faceva regalare una chitarra, perché il sogno di libertà di quella generazione coincideva con la fuga su due ruote e nel pizzicare le sei corde, magari senza saper suonare. Merito (o colpa) dei Sex Pistols, dopo la sbornia psichedelica, che nel '76 si esibiscono a Manchester facendo il solito baccano. «Sono arrivati loro, i Sex Pistols, hanno spazzato via tutto. La lezione era questa: non ti servono tutte quelle strozzate, bastano tre accordi, fidati. Impara tre accordi, scrivi una canzone, metti su un gruppo» (B. Summer). Ma c'è anche chi suppone fosse stata una farsa, che invece sapessero suonare eccome, ma non sarebbe bastato a far parlare di sé.

E il gruppo lo mettono su anche loro, lo chiamano Warsaw per rendere omaggio a un pezzo di David Bowie e poi diventeranno i Joy Division, nome molto contestato per il riferimento alle prigioniere dei campi di concentramento usate per intrattenere sessualmente i nazisti. Unknown Pleasures è il disco che cambia la loro vita e forse anche la nostra. «I Joy Division suonavano come fantasmi e la loro musica sembrava spettrale, come qualcosa che è morto ma ancora vivo, qualcosa che è lì e al contempo non c'è», afferma il giornalista Bob Dickinson. Nutrendosi di suggestioni letterarie, in particolare di William Burroughs e di Brion Gysin, Curtis accelera la vena avanguardista e la scrittura in stile cut and up, ma sono le performance dal vivo a segnare la differenza. Ian soffre di epilessia e balla sul palco simulando gli attacchi che poi arriveranno. Nulla è costruito, lui non riesce a distinguere tra pubblico e privato, non c'è alcuna finzione e il successo lo distruggerà a breve. Non voleva accettare la malattia, «non si curava - ricorda Peter Hook - lui voleva diventare una superstar del r'n'r». Mettiamoci anche i contrasti tra gli altri della band e Deborah, la moglie, sempre per questione di soldi, insomma non fu affatto facile.

Cronaca di una morte (rock) annunciata? Qualcosa del genere, la storia di una stagione all'inferno che, pur conoscendone in anticipo il finale, ci commuove sempre, soprattutto quelle ultime pagine che raccontano il 18 maggio 1980, le telefonate, le notizie in tv, avvisare i genitori, reggere i media, tenere a bada l'amante... «Ricordo che sul momento ero rimasto ammutolito, non sapevo che dire. Ero annientato. È stato un momento durissimo. Ora sono molto più riflessivo, da ragazzo ero molto istintivo. Oggi sono abbastanza freddo e distaccato. Non riesco più a stringere vere amicizie, perché quasi tutti quelli a cui sono stato veramente legato sono morti» (B.

Sumner).

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