Controcultura

Il piano di Seul per invadere i mercati asiatici con la cultura pop

Musica, cinema, serie tv, videogame, moda, cosmesi: così i sudcoreani spingono i consumatori a sostenere la produzione industriale

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da Seul

Si chiama Park Jaesang e il suo nome vi dirà poco, forse nulla. Più conosciuto come Psy è un ragazzone coreano dal volto simpatico che quattro anni fa è improvvisamente diventato un fenomeno globale grazie al video di una sua canzone in cui danzava imitando un cavaliere a cavallo e si dava un sacco di arie. La canzone, rigorosamente in coreano, era Gangnam style. Parodia del modo di vivere leggero e vacuo di Gangnam, il quartiere più chic di Seul, in pochi mesi ha sfondato il miliardo di visualizzazioni su YouTube, diventando il video più visto di sempre. Anche se in Corea del Sud alcuni storcono il naso perché l'alternativo Psy non è certo un buon esempio da esportare, è stata la definitiva consacrazione planetaria del K-pop, la musica pop coreana. Ma le canzonette sono solo una delle tante facce dell'Hallyu: parola cinese che letteralmente significa «l'ondata coreana». Ovvero l'invasione della cultura pop made in South Korea in Asia e nel resto del mondo. Un fenomeno culturale che in Italia è ancora piuttosto marginale, ma che in Oriente spopola da anni. Un mix di Hollywood con sensibilità asiatica che riguarda non soltanto la musica, ma anche cinema, soap opera, serie tv, videogiochi e, a cascata, settori come information technology, moda, cosmetica e produzioni alimentari. Questo perché, come ha spiegato la presidente Park Geun-hye: «Viviamo in un'epoca in cui uno sceneggiato televisivo può sostenere la produzione industriale», spingendo i consumatori ad acquistare i prodotti, ovviamente made in Korea, visti in tv. La dimostrazione? Le vendite di un lucidalabbra utilizzato dalle protagonista di una serie tv molto di moda, Descendants of the Sun, sono aumentate del 360% dopo che l'ultimo episodio è stato trasmesso sulla tv cinese.

Paese storicamente debole, invaso a più riprese da cinesi e giapponesi, devastato dalla guerra fratricida sul 38° parallelo, la Corea del Sud è la dimostrazione che alle volte i piani quinquennali funzionano. Nel 1998, un anno dopo la crisi finanziaria che mise in ginocchio le tigri asiatiche, il governo di Seul decise di investire in un nuovo settore di sviluppo: la cultura pop. Gettando così i semi del successo dell'Hallyu in questo inizio di secolo. Se negli anni del dopoguerra la vertiginosa crescita di un'economia rasa al suolo dalla guerra civile con i comunisti del Nord era dipesa dalla cantieristica, dalle auto e dall'industria pesante, il cambio era sostanziale. Dall'acciaio si passava alla parole; meglio se cantate da un adolescente accuratamente selezionato ed educato, vestito in abiti larghi e appariscenti, come un rapper americano ma più composto. Sulla carta una scommessa abbastanza folle: possibile riuscire a costruire una cultura pop da zero? Certo, non richiede grandi investimenti in infrastrutture, però necessita di tempo, fortuna e talento. Un vero azzardo. Fino a quel momento le esportazioni culturali coreane erano state pari a zero al punto che il governo non ha serie statistiche sul tema: del resto, ammettiamolo, chi mai avrebbe voluto ascoltare la musica tradizionale coreana?

Il primo passo fu ampliare il mercato interno, finanziando la nascita di dipartimenti dedicati allo «sviluppo creativo» in oltre 300 scuole e università del Paese. Il cambiamento partiva da una constatazione piuttosto semplice fatta dai consulenti del governo. «Se Jurassic Park di Spielberg aveva prodotto introiti pari alla vendita di 1 milione e mezzo di veicoli Hyundai, allora la Corea doveva produrre pellicole da blockbuster». Anche perché nello stesso periodo di tempo era riuscita a vendere solo 700mila auto. Si trattava di una rivoluzione copernicana per una nazione costituzionalmente non creativa. La cultura confuciana che per secoli ha costituito la nervatura della società coreana infatti non ha mai premiato fantasia e creatività, anteponendogli piuttosto valori stabili come il rispetto del canone e della disciplina. Per cui fin da piccoli i figli dovevano studiare duramente per superare gli esami di ammissione all'università, non improvvisare gruppetti musicali con cui ammazzare il tempo. Insomma, se i Beatles non sono nati alla periferia di Busan c'è qualche motivo. Anche perché durante gli anni della dittatura militare, caduta nel 1987, la musica rock era severamente bandita, così come erano bandite (fino al 1998) le importazioni di qualsiasi prodotto culturale dell'ex potenza coloniale, il Giappone, che però era il Paese più moderno della zona. Per promuovere la rivoluzione culturale il governo si impegnò a garantire incentivi fiscali per le aziende che decidevano di investire nel settore e introdusse un sistema di quote nel cinema: ogni sala avrebbe dovuto trasmettere film coreani per non meno di 147 giorni l'anno. Pena, la sospensione della licenza.

Il passo successivo fu conquistare i Paesi vicini aprendo un'agenzia governativa, la Korea Culture and Content Agency, per spingere le esportazioni. All'inizio cercava di far trasmettere le serie tv coreane che nessuno voleva vedere sui canali tv di Hong Kong e di Tokyo. Oggi finanzia tra le altre cose il doppiaggio delle serie tv coreane in lingue come il talog parlato nelle Filippine, o il farsi in Iran, in modo da facilitare la penetrazione in quei mercati. Ma anche concerti a Parigi o in Giappone che portano in tour il meglio delle boy band coreane e fanno strage di adolescenti. Frutto anche della gigantesca operazione di marketing nazionale messa in campo da governo per cambiare la reputazione del marchio Corea. Per farlo l'allora presidente della Repubblica Kim Dae-jung pubblicò un libro in cui sosteneva che in passato il Paese era stato «troppo chiuso su se stesso, adesso doveva aprire le sue porte al mondo».

Il cammino era segnato, il passo successivo sembrava estratto dal mazzo di carte di una partita di Risiko: conquistare il mondo. Un obiettivo centrato se si pensa che nei primi sei mesi di quest'anno le esportazioni di «beni immateriali» come serie tv, videogiochi e canzoni hanno fruttato oltre 6,7 miliardi di dollari, oltre il 15% in più rispetto all'anno precedente. Esportazioni che hanno fatto da traino al successo di altri prodotti coreani: il settore cosmetico è cresciuto del 38%. Le esportazioni di cibi del 3,5 per cento. L'esempio concreto di come il governo coreano ci avesse visto giusto: investire in cultura pop serve da traino per l'espansione economica. Un po' quanto teorizzato da Jospeh Nys, il politologo di Harvard che negli anni Novanta per primo aveva parlato di soft power, le teoria secondo cui quel che davvero conta per dominare il mondo non è la forza militare, ma l'appeal della propria cultura. Per cui per tirare giù il muro di Berlino i Levi's e James Dean alla fine sarebbero stati più importanti, e penetranti, di carri armati e portaerei. Che è quello che hanno coscientemente fatto in Corea del Sud, puntando non tanto alla conquista del mondo occidentale, quanto al trionfo su tutto il mercato asiatico e sui Paesi emergenti, dall'Iran all'Uzbekistan. In questo molto è dipeso anche dal contemporaneo sviluppo di Samsung, brand globale che oggi vale un quinto del prodotto interno lordo coreano. Nata nel 1938 come compagnia che commerciava in frutta e pesce, per decenni è stato l'esempio della grande impresa confuciana amministrata gerarchicamente. Produceva microonde con poca qualità e scarso mercato, e nessuno conosceva il suo nome. Oggi è leader mondiale per smartphone, semiconduttori e televisioni a schermo piatto. Lo sviluppo delle tecnologie digitali favorito dalla crescita di Samsung ha fatto da traino all'Hallyu. Perché non sono tanto i film di Kim Ki-duk e Park chan wook che spopolano nei festival europei a tirare l'economia, ma videogiochi on line e canzonette per adolescenti.

Intanto la Hanjin Shipping, la più grande compagnia di navigazione mercantile del Paese fallisce sommersa dai debiti. I nuovi prodotti da esportazione coreani non hanno bisogno di container, si accontentano di una chiavetta. Questo il governo di Seul l'ha ben chiaro, tanto che nel 2013 ha aperto un ministero il cui nome spiega la nuova filosofia coreana: ministero della Scienza, delle tecnologie dell'informazione e comunicazione e della pianificazione del futuro. Perché non sono solo di canzonette.

*giornalista del Touring Club Italiano

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