Economia

Napoli, le pizzerie spengono il forno

Affitti alle stelle per i locali nei quartieri più prestigiosi. Aumentano invece take away e friggitorie Ristoratori in allarme: "Chi controlla?"

Napoli, le pizzerie spengono il forno

«A via Chiaia ce ne stanno tre». «No, quattro, le ho contate ieri». Su Napoli incombe lo spettro delle patatinerie. Giallo fluorescenti e visibilissime in queste giornate di sole perpetuo, aperte sulle strade principali ma anche nei vicoli, eccole le nuove arrivate nella città più lontana dall'idea dei take away di tutti i capoluoghi d'Italia. Eppure: «I giovani questi qua ce li portano via», sospirano i pizzaioli. Dalla margherita al ketchup nei barattoli di plastica: è un dramma per Napoli.

Sì, perché le pizzerie non se la passano bene nel luogo simbolo della Marinara e delle sue sorelle, in corsa per il titolo di Patrimonio dell'Unesco. Lo dicono i dati delle associazioni degli esercenti, le saracinesche chiuse, l'associazione pizzaioli napoletani di corso San Giovanni a Teduccio. I gestori sono strangolati dalle tasse e dagli affitti spropositati: «Alla scadenza del contratto di dodici anni - spiega il presidente, Sergio Miccù - i proprietari del locale chiedono un aumento fuori luogo». A via Chiaia raccontano di 11mila euro per un locale di appena cinquanta metri. Prezzi alle stelle anche al Vomero, dove ha chiuso la pizzeria Don Giovanni. Lo scorso anno Giuseppe Bruscolotti, storico capitano del Napoli, ha messo i sigilli alla 10 maggio 87. Dal Vomero se n'è andato anche Fendi: la crisi del commercio sotto il Vesuvio riguarda infatti anche le grandi griffe, e le gioiellerie. Gli ori di Napoli si stanno offuscando, anche se una leggera ripresa del turismo quest'estate c'è.

Secondo gli ultimi dati Confesercenti, nei primi sei mesi del 2014 nella provincia sono stati chiusi quasi 300 tra pizzerie e ristoranti. A Napoli città 105. Al contrario si stanno moltiplicando i piccoli bar e chioschi di kebab e patatine. Secondo un'altra ricerca di Confazienda, a Napoli nel 2014 il numero di bar è quadruplicato. Sono stati aperti seicento esercizi tra grafferie (140), dove si vendono le ciambelle fritte napoletane, paninoteche (300), kebaberie (80), patatinerie (50) e yogurterie (30). In base a un rilevamento Unioncamere di febbraio 2015, a Napoli chiudono diciotto negozi al giorno. È crisi dell'alimentare: 43 iscrizioni, 74 cancellazioni nel periodo gennaio-aprile 2015.

Qualche tempo fa era stata costretta a ridurre il servizio addirittura la pizzeria Brandi di Salita Sant'Anna di Palazzo, la pizzeria dove sarebbe nata la Margherita in onore della regina, nel 1889. I tavoli a pranzo ora sono tutti pieni. Eduardo Pagnani racconta: «Eravamo arrivati ad avere 200mila euro di debiti nei confronti dello Stato. Abbiamo dovuto mettere in cassa integrazione dieci dipendenti». Poi i contratti sono stati rimodulati e qualcuno è rientrato: «Patatinerie, kebab, ci portano via gente. Poi abbiamo la concorrenza sleale». Si riferisce alle mani della mafia sulla pizza, i locali aperti dalla camorra. Se i marchi storici riescono a resistere, la crisi colpisce le pizzerie nascoste nei quartieri che soffrono, dove i tassi di disoccupazione sfiorano il 50%. «Sempre più difficilmente riescono a far quadrare i conti», riassume il presidente di Confesercenti Napoli, Vincenzo Schiavo. È ormai frequente «Vedere il proprietario che serve ai tavoli e sta alla cassa». Aprono invece nuovi esercizi in franchising : «Pochi costi: patatine già imbustate, una persona frigge, l'altra serve». Ma il boom inaspettato del cibo prêt-à-porter «deve essere controllato», ammette Schiavo: «Quando ci sono attività che crescono in maniera veloce bisogna stare attenti, perché Napoli e una città difficile.

La malavita tende a entrare nei percorsi virtuosi più velocemente di quanto noi possiamo percepire».

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