Politica

Pm politicizzati? Inconcepibile per il diritto

La magistratura non produce diritto: lo afferma. Ecco perché non può essere ideologizzata né giacobina

Con l’articolo di oggi comincia la sua collaborazione con "Il Giornale" il professor Stefano Bruno Galli. Politologo e ricercatore, autore di alcuni saggi tra cui "Le alchimie del federalismo", il professor Galli è docente di Storia delle Dottrine.

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di Stefano B. Galli

Che l’episcopato - di fronte alle pruriginose cronache giornalistiche di questi giorni connesse al caso Ruby, che hanno suscitato pure l’indignazione, il «fastidio» e l’«imbarazzo» dell’inquilino del Viminale, il ministro dell’Interno Roberto Maroni - censurasse taluni (presunti e ancora tutti da provare) atteggiamenti era nella natura delle cose. Era connesso al suo ruolo pubblico e alla sua missione etico-religiosa. Quasi un’ovvietà; nulla di che stupirsi.

Ma che a questa presa di posizione, la Conferenza episcopale - per bocca del cardinale Angelo Bagnasco - associasse una altrettanto rigorosa censura dell’agire di talune aree della magistratura è un dato di assoluta novità. Peraltro senza ingaggiare alcuna polemica politica e neppure prendere posizione in ordine ai conflitti tra i poteri dello Stato.

Bagnasco s’è anzitutto limitato a richiamare il senso dell’«onore» - cioè la dignità del ruolo connesso alle cariche pubbliche - richiesto a chi riveste alti incarichi istituzionali. E poi ha sottolineato «l’ingente mole di strumenti di indagine», messi in campo allo scopo di trovare conferme e avvalorare un teorema politico prestabilito.
Da anni si parla di riforma della giustizia. E da anni si sente ripetere un leit motiv: uno dei pilastri del costituzionalismo moderno di ispirazione liberale - da Montesquieu a Constant - è rappresentato dalla divisione dei poteri. Giusto, nessuno lo nega. Ma questo stesso costituzionalismo di fianco alla divisione dei poteri ha anche teorizzato il loro equilibrio, secondo importanti ed essenziali meccanismi di pesi e contrappesi, di check and balances. Questo è il punto.

L’articolazione dei poteri indicata nella Costituzione repubblicana prevedeva e prevede la divisione. E anche l’equilibrio. Un equilibrio che tuttavia - in particolare nel caso dei rapporti del sistema politico con la magistratura - è sempre stato precario. E, forse, non c’è mai stato.

Negli anni della Prima repubblica troppo forti erano i vincoli della democrazia bloccata, per effetto del quadro internazionale e della divisione dell’Europa in due blocchi funzionalmente contrapposti, perché la magistratura esercitasse sino in fondo il proprio ruolo. Salvo rarissimi casi eclatanti e difficilmente gestibili - per esempio, lo scandalo Italcasse oppure lo scandalo Lockeed - il margine discrezionale d’azione della magistratura era molto ristretto. E ciò ha consentito il ricorso a pratiche di gestione del potere sempre più ancorate ai criteri del clientelismo e della corruzione eletti a metodo.
Ma nel 1989 è crollato il Muro di Berlino. E oggi si può tranquillamente sostenere che esso, in realtà, è caduto addosso a noi, nel senso che ha sbloccato la democrazia, poiché sono venuti meno i vincoli delle alleanze internazionali e dei blocchi contrapposti. Ciò comportava una risposta all’altezza della situazione, seria e responsabile, da parte di tutti i poteri, della classe politica come della magistratura.

La prima avrebbe dovuto ricorrere alla strada dell’assemblea costituente - proprio in sintonia con i principi del costituzionalismo moderno - per varare una nuova Costituzione e su di essa fondare la Seconda Repubblica. Ma rispose con la bicamerale De Mita-Iotti che, come tutte le commissioni di revisione della Costituzione, non portò a risultati significativi e degni di nota. È così cominciata la lunga età della transizione, nella quale viviamo ancora oggi. Età fangosa, magmatica, con delle regole del gioco vecchie e una classe politica nuova, ma non del tutto; età di confusione e disordine non tanto nella divisione, quanto piuttosto nell’equilibrio dei poteri tra di loro.
La seconda, liberata dai vincoli della democrazia bloccata e sostenuta dall’entusiasmo popolare suscitato dagli arresti clamorosi, ma anche dai processi mediatici e sommari, di Tangentopoli, ha abbracciato il mito della rivoluzione giudiziaria. Come interpretare il tornante del 1992 se non come un ricambio forzato (ma parziale) della classe politica, grazie all’azione della magistratura? E in taluni settori della magistratura - tra gli «irriducibili» - il mito della rivoluzione è vivo e pulsante ancora oggi.

La magistratura annovera tra le sue schiere autentici eroi della Repubblica, basta pensare ai nomi di Falcone e Borsellino. Ma un’esigua minoranza è davvero fortemente ideologizzata. È un’anomalia tutta italiana che, per effetto dell’ideologizzazione propria di una parte della magistratura, vi siano le correnti. La magistratura, infatti, non è fonte di diritto; nel senso che non lo produce né lo genera. Nell’esercizio più alto e più nobile delle sue funzioni, essa - piuttosto - lo afferma. E l’affermazione del diritto non può essere ideologizzata. È affermazione, punto e basta; senza colore ideologico.

La magistratura è un «ordine», assolve cioè a una funzione pubblica nell’ambito della divisione e dell’equilibrio dei poteri, affermando il diritto. E nell’affermazione del diritto non sono ammesse ideologizzazioni, soprattutto quando rispondono a un giacobinismo da quattro soldi.

Che è giustizialismo ideologico fine a se stesso.

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